Psicomemetica. Un nuovo termine, una nuova scienza
di Nicola Ghezzani
Una premessa
L’articolo che qui presento è la sintesi arricchita di due articoli comparsi nel 2009 sul sito dell’Associazione ASIP (Associazione per lo studio delle Iperdotazioni Psichiche), di cui sono Presidente.
L’idea centrale che diede forma all’esigenza di creare l’Associazione è che l’iperdotazione psichica, emotiva e/o intellettiva, caratterizzi una tipologia genetica minoritaria della specie Homo e che comporti un rischio di sviluppi psicopatologici maggiore rispetto alla normodotazione.
Nel contesto di questa idea ho studiato il rapporto fra l’individuo iperdotato e i valori (memi) con i quali interagisce. In questo contesto, i due articoli qui sintetizzati rendevano nota la nascita di una nuova disciplina: la Psicomemetica. Per maggior diffusione di questa nuova scienza, ho deciso di “salvarlo” sia sul mio sito personale che su questo dell’Associazione SIPSID, che raccoglie psicologi e intellettuali interessati alla Psicologia dialettica.
Buona lettura!
Cos’è il meme
Le scienze si incrociano di continuo e dai loro mutui scambi nascono nuovi concetti e nuove discipline. La memetica è una scienza nata per intero dalla mente dell’etologo e biologo evoluzionista Richard Dawkins1, che ha supposto l’esistenza di una “unità minima di trasmissione culturale”, basata sull’imitazione e l’ha denominata meme, dal greco mimesische rimanda appunto all’imitare.
Il termine “meme” è un neologismo costruito in analogia al termine “gene”, che indica l’unità minima di trasmissione dell’informazione biologica relativa ai somatotipi, ai corpi biologici. Ebbene, come il gene trasmette informazioni sulla struttura biologica da una generazione all’altra, così, secondo Dawkins, il meme trasmette da una generazione all’altra unità di informazione culturale, cioè valori più o meno consci e i loro relativi schemi comportamentali.
A onor del vero – a dimostrazione che le idee non nascono dagli uomini bensì negli uomini, per una sorta di partenogenesi – occorre notare che il concetto di meme era stato già intuito da un altro studioso. Lo studioso in questione è il linguista Kenneth Pike2 che elaborò il concetto di behavioureme, termine con il quale intendeva descrivere l’unità minima di comportamento (behaviour, appunto) individuabile e circoscrivibile ai fini di un’analisi.3
Negli anni in cui Pike elaborava la sua teoria, Dawkins aveva già posto le basi per la sua teoria del meme, ma non possiamo sapere se Dawkins, nel momento in cui coniò il suo concetto, fosse a conoscenza dell’analoga idea già sviluppata da Pike o se, invece, abbia semplicemente concepito l’idea in un’atmosfera culturale simile, che ne rendeva possibile l’intuizione.
Un meme è una riconoscibile unità di informazione propria del campo della cultura umana che è replicabile da una mente o un supporto simbolico di memoria – per esempio un libro, un dipinto, un file – che l’abbia tratto dal un’altra mente o supporto. In termini più specifici, un meme è “un’unità auto-propagantesi” di evoluzione culturale, analoga a ciò che il gene è per la genetica. La parola è stata coniata da Richard Dawkins nel suo controverso e affascinante libro Il gene egoista(edizione originale: The Selfish Gene, 1976).4
Un meme va pensato come la struttura elementare di un’idea, di una lingua, di una melodia, di una forma, di un’abilità, di un valore morale o estetico; può essere qualsiasi cosa comunemente acquisibile e trasmissibile come un’unità semantica. Lo studio dei modelli evoluzionistici del trasferimento dell’informazione prende il nome di memetica. Come l’evoluzione genetica, anche l’evoluzione memetica non può avvenire senza mutazioni. Ogni replicazione avviene attraverso uno o più individui, o attraverso un mezzo meccanico. Ma , come sappiamo sia dalla teoria dell’informazione, sia dalla teoria dell’evoluzione, una replicazione non può avvenire senza perdita di parte della vecchia informazione e, poiché ogni “errore” di replicazione costituisce de facto una nuova informazione, senza acquisto di una diversa struttura di informazione.
In teoria, la replicazione culturale implicherebbe la produzione di una copia identica all’originale. Ma di fatto la normalizzazione culturale non può ambire a questa precisione, essendo ostacolata da due fattori: innanzitutto dal carattere generico delle regole morali, che vanno applicate di volta in volta a diverse circostanze di vita, poi, dalla struttura stessa della soggettività che se ne appropria e le ripete in modo variato, cioè secondo la sua propria dotazione cognitiva e emozionale. Alla fine, ogni individuo umano – come dicevo nel libro del 2008 – è un selettore memetico, poiché non può fare a meno di operare selezioni e trasformazioni dei messaggi ricevuti, cioè dei memi.
La mutazione produce varianti di cui si replicano solo le più adatte al contesto; ossia: diventano più comuni ed aumentano la loro probabilità di replicarsi ulteriormente. È probabile che sia stata la mutazione a far evolvere culturalmente un primitivo gruppo di sillabe nell’ampia gamma di lingue e dialetti attualmente esistenti, e allo stesso modo è altrettanto possibile che anche l’ampia gamma di significati simbolici intrinseci ad ogni cultura sia evoluta tramite replicazione e variazione memetica.
La genialità di Dawkins consistette nel pensare il meme in analogia con il gene, l’unità minima di trasmissione dell’informazione genetica, quindi, coerentemente, di vederla sottoposta a un processo di mutazione e selezione. In sostanza, egli ibridò la semiologia con l’evoluzionismo darwiniano.
Secondo Dawkins, così come i geni perdurano o vengono eliminati nel corso della loro deriva storica da organismo a organismo (sulla base del fatto che rendono quell’organismo più o meno adatto alla realtà ambientale, quindi più o meno in grado di sopravvivere), così anche i memi sono stili di comportamenti che possono essere imitati, oppure no, quindi sopravvivere attraverso la storia umana oppure essere eliminati. I memi sono parti di identità culturali (quindi anche di identità psicologiche) memorabili o meno, quindi tali da essere diffusi e sopravvivere, oppure da essere dimenticati ed eliminati. D’altra parte poiché ogni struttura materiale è portatrice di memoria, anche il meme dimenticato può essere dedotto e rimesso in auge.
Faccio due esempi. Nella cultura greca e in quella romano-ellenistica non era raro vedere statue nelle quali un uomo barbuto teneva in braccio un neonato: esse rappresentavano il dio dei boschi Sileno nell’atto di accudire il piccolo Dioniso appena nato. Nella cultura cristiana questa figurazione scomparve a favore dell’immagine della madonna che accudiva il bambino Gesù. Da quel momento l’immagine “madonna con bambino” diventa “virale”: mentre si diffonde come immagine artistica, quindi estetica (portatrice di bellezza), porta con sé valori inerenti l’identità femminile e il rapporto del volto col volto che diventano in breve prescrittivi e generativi di una nuova civiltà. Secondo esempio: mentre nella cultura egizia i volti venivano ritratti quasi sempre di profilo, nella cultura europea vennero ritratti quasi sempre in modo frontale fino a massimizzare l’incontro dello sguardo dello spettatore con quello del soggetto scolpito o dipinto. Risulta evidente in questa mutazione iconografica l’importanza crescente che una parte crescente dell’umanità ha dato alla relazione empatica, alla capacità di identificazione, alla democrazia del dialogo, ma anche alla separazione di ruolo fra maschi e femmine, durata in questa forma per due millenni.
La psicomemetica
Quello che qui propongo è, dunque, un ambito di studi molto fertile ma ancora poco indagato: quello delle relazioni fra l’influsso memetico e la psiche collettiva e individuale.
La Psicologia dialettica (che inserisce lo studio della psiche individuale nel campo epistemologico delineato dalla storia sociale) ha questo ambito di studi come una delle sue aree di maggiori interesse. Presentai per la prima volta questa ipotesi nel 2008 nel libro La logica dell’ansia, dove identificai i valori sociali e in genere le idee con i memi.
Nel libro affermavo:
Nel corso dell’evoluzione l’uomo ha dovuto apprendere a effettuare una valutazione selettiva dei valori, perché la sola sensibilità, in assenza di capacità riflessive, si limitava a interiorizzare differenti modelli, producendo in tal modo un paesaggio sociale e mentale saturo di messaggi contraddittori, che impedivano l’azione individuale coerente e che andavano pertanto risolti. Queste entità culturali possiamo chiamarle tanto idee o valori, quanto memi.5
Secondo l’ipotesi da me avanzata, la base dell’imitazione e della replicazione memetica è la sensibilità. La necessità imitativa, intesa come fattore evoluzionistico specie-specifico, ha selezionato individui umani dotati di gradi crescenti di empatia, quindi sensibili. La costante attività empatico-imitativa, la sua variazione storica e l’incontro con diverse culture, tuttavia, fu tale da indurre nella psiche individuale e in ogni singola cultura conflitti memetici crescenti. Quale fu allora la “soluzione” introdotta dal specie? L’evoluzione umana introdusse un nuovo genere di attitudine umana: la riflessività immaginaria introversiva. Gli individui dotati di riflessività immaginaria sono una sotto-specie nella vasta specie umana: io li chiamo semplicemente riflessivio immaginativi– e non sono necessariamente introversi. Mediante la riflessione e l’immaginazione – spesso attuate nel foro interiore dell’introversione – il conflitto memetico avviene in modo sempre più consapevole, quindi viene co-adattato. Ogni singolo individuo riflessivo-immaginativo seleziona e “sposa” una variazione memetica a scapito di un’altra, quindi mentre si adatta ad essa adatta il meme a sé.
Questa mia ipotesi (espressa per esteso ne La logica dell’ansia) si allaccia al concetto di processo di individuazione di Carl Gustav Jung. Secondo Jung, il processo di individuazione è quel processo psicologico che ogni individuo compie al fine di sviluppare un proprio Sé: seguendo la mia ipotesi esso può essere inteso come coesione e armonizzazione sia di un complesso di archetipi sia di un complesso di memi. La differenza fra la mia ipotesi e quella junghiana consiste nel grado di materialismo scientifico dell’ipotesi. Nella teoria junghiana gli archetipi hanno una esistenza di tipo plotiniano, una sorta di vita propria. Nella mia ipotesi, i memi sono entità non diverse dai cristalli – sono strutture autonome che si sviluppano nel tempo –, ma vengono di fatto selezionate dall’azione culturale, quindi dagli esseri umani concreti. Essi vivono e prosperano in quanto esistono i cervelli umani. La vita di cui dispongono è quella che gli uomini prestano loro.
Il rapporto tra psicologia e memetica può essere definito Psicomemetica(o anche Psicologia memetica) e, di conseguenza, conflitto psicomemetico o competizione psicomemetica la selezione darwiniana che avviene fra memi. Ovvio che auspico la nascita di questa nuova scienza, essendo i tempi maturi per lo studio dell’evoluzione culturale al di fuori di ogni pregiudizio ideologico di parte e con gli stessi strumenti (p. es. analisi statistica e matematica topologica) adottati dal moderno evoluzionismo. La Psicologia dialettica è oggi nella migliore posizione per esserne una delle forze ispiratrici.
Conflitti memetici culturali
La selezione darwiniana dei memi attraversa le epoche storiche e accompagna i conflitti culturali. Faccio un esempio. In molto quadri pre-rinascimentali che rappresentano la madonna col bambino Gesù, la madre non guarda in viso il figlio, perché sta col viso rivolto frontalmente agli astanti, quindi ai fedeli. Col tempo ha prevalso la figurazione in cui gli occhi della madre incontrano quelli del figlio. Ecco, in quel momento storico ha prevalso il meme “empatia madre-figlio”, che prima di allora era solo accennato a tratti nel storia dell’iconografia umana. Gli artisti che fecero questa scelta, in parte influenzati da mutamenti socio-psicologici, co-adattarono il meme “madre con figlio” a nuove esigenze psico-sociali. Da allora lo sguardo frontale, soprattutto se rigido, venne riconosciuto come distaccato, facente capo ad una pedagogia nella aule il bambino piccolo non era ancora considerato un essere vivente e senziente a pieno titolo. La formazione dell’identità psichica umana dovette da allora includere questa nuova consapevolezza.
Gli psicologi che nella seconda metà del IXX secolo hanno studiato l’interazione madre neonato e l’importanza dello sguardo fra i due, attribuendo alla natura umana la necessità di tale sguardo, commettono un errore di ingenuità storica. Un intenso sguardo madre figlio in epoche nelle quali di dieci figli almeno sette se non otto erano destinato a morire prima dei cinque anni sarebbe stato impensabile, anche perché fonte di un potenziale squilibrio psichico nella madre destinata a restare “vedova” di gran parte dei suoi figli. L’empatia è una dote naturale della specie umana che ha potuto essere potenziata quando le condizioni igieniche hanno consentito la sopravvivenza di un numero crescente di bambini.
Un nuovo conflitto memetico, sorto con la diffusione dell’integralismo islamico, oppone oggi il meme “volto femminile scoperto” al meme “volto femminile coperto”. La specie umana nel suo complesso – la civiltà occidentale non diversamente da quelle nate sulle sponde del Gange o dello Yangtze come persino quelle tribali del Rio delle Amazzoni – ha prediletto il volto femminile scoperto esaltandone la grazia e la bellezza in relazione sia all’attrattiva erotica che alla dolcezza materna. Pressoché unica sull’orbe terrestre, la civiltà islamica, nelle sue versioni più radicali, ha prediletto e diffuso il valore della mortificazione della donna a partire dalla sua stessa presenza fisica; sicché di recente ha tentato di imporre ovunque il burqa, un indumento configurato come un cappuccio che copre per intero il volto della donna. Poiché questo meme significa non solo e non tanto la negazione dell’erotismo femminile e della dolcezza materna quanto soprattutto l’esclusione della donna dalla dimensione pubblica e la sua reclusione nel solo spazio privato – con grave danno per la dignità della donna in quanto persona e per la vocazione egualitaria delle società democratiche – il burqa è fieramente rifiutato da tutte le civiltà confinanti con l’Islam: l’Europa, la Russia, l’India, la Cina, l’Africa. Di fatto il meme del “volto femminile coperto” ha cercato di imporsi mediante la guerra, il terrorismo, la violenza fisica e morale; tutti strumenti di scarsa affabilità e ben poco virali. Di conseguenza, la particolare odiosità della sua natura lo ha reso decisamente debole sul piano della competizione virale.
Conflitti memetici intrapsichici
In questo senso, anche i conflitti intrapsichici che stanno alla base delle varie forme della psicopatologia possono essere interpretati come conflitti memetici. Se, per esempio, in una giovane donna islamica si attivano due campi memetici opposti quali “donna con burqa” e “donna col viso scoperto e i capelli sciolti” e interpreta il secondo meme, cui tende, come un grave attacco al primo, quindi alla famiglia e alla sua fede religiosa, può avere sensi di colpa e regredire alla condizione originaria, o sviluppare un’isteria e fingere amore familiare mentre intanto odia, o magari sviluppare un delirio nel quale delle voci parlano male di lei. Un altro esempio. Una donna occidentale vive secondo il meme “donna che ama l’uomo che ha bisogno di lei per sentirsi forte” e allo stesso tempo secondo il meme “donna che rifiuta l’uomo che la sottomette a un suo scopo personale”. Il conflitto è radicale e la donna può da un lato sottomettersi all’uomo che ha bisogno di lei, dall’altro odiare se stessa per il suo essere servile. In conseguenza di questo conflitto finisce per attaccare l’uomo con rabbia distruttiva alla sua prima mancanza, col successivo corteo di sensi di colpa e riparazione.
Ogni singolo meme è parte di un complesso memetico che evoca per analogia, come il singolo elemento di un insieme richiama alla mente l’intero insieme. Per esempio, il meme “sguardo femminile diretto” può evocare il complesso memetico della “parità uomo donna”. In questo senso per attivare un conflitto memetico intrapsichico è sufficiente la presenza di un singolo meme, anche apparentemente minore, o persino insignificante, perché esso porta con sé le sue inevitabili conseguenze, cioè la sua famiglia virale. Quindi, se una donna di tradizione patriarcale alza lo sguardo e incontra uno sguardo maschile, il meme “sguardo femminile diretto”, in quell’istante attivo nella sua mente, può richiamare il meme “donna coraggiosa”, oppure quello “seduzione femminile irrispettosa”, generando due diramazioni diverse e due diversi complessi memetici. Per un verso quella donna può attraversare una fase di cambiamento culturale, per l’altro può andare incontro ad una fobia dello spazio aperto (una vera e propria carcerazione preventiva) o a un delirio di riferimento con angosce persecutorie, perché il meme “seduzione femminile irrispettosa” ha attivato vergogna e sensi di colpa.
La salute psichica dipende, dunque, dal vivere secondo memi integrabili fra loro, la patologia da conflitti memetici che la selezione darwiniana delle idee non ha ancora risolto.
Qualche cenno storico
Come già detto, fu nel 2009 che scrissi l’articolo, pubblicato nello stesso anno sul sito dell’Associazione ASIP6, in cui, già nel titolo, figurava per la prima volta il neologismo Psicomemetica. La Psicomemetica costituisce un nuovo campo scientifico: un campo di mediazione fra psicologia e memetica.
Ho coniato questo nuovo termine allo scopo di fare una sintesi delle elaborazioni presentate nel mio libro La logica dell’ansia 7nella cui seconda parte è appunto analizzato il rapporto fra la psiche individuale e collettiva e quella entità culturale scoperta da Richard Dawkins e descritta nel suo Il gene egoista8che egli ha definito meme.
Il meme è l’unità imitativa minima (depositata dunque nella memoria biologica e/o culturale di una specie) che gli individui fanno propria per imitazione e che incarnano il più delle volte senza esserne consapevoli. Un modo di pronunciare una parola, un modo di portare un cappello, un modo di accudire un bambino, un modo di amare o di uccidere, di godere la vita o di compiere il suicidio ecc. sono memi, strutture eidetiche, forme vissute di pensiero, che possono costituire o no delle “mode” sottoposte, come ogni cosa nell’universo, alla permanenza o alla distruzione nel tempo, quindi a una selezione darwiniana.
Coniai il termine in un momento di riflessione personale e di gruppo. Nel sito dell’ASIP erano apparsi alcuni articoli che potevano essere ascritti a questa nuovo campo di indagine o almeno letti in questa accezione. Essi erano lì già un paio d’anni prima che formulassi il concetto. Nulla di strano: un nuovo concetto è un buon concetto nella misura in cui non solo orienta il presente e il futuro, ma riorganizza il passato secondo le sue linee.
Il primo articolo – pubblicato appunto ben prima della genesi del termine – è stato il mio articolo dedicato all’autolesionismo.9
Al termine, in un paragrafo intitolato “L’autolesionismo come tendenza epocale”, scrivevo:
Intesa come protesta di categoria (di alcune frange giovani o di marginali) l’autolesionismo da solitario e nascosto può divenire un fenomeno trendy, di tendenza, e come tale esibito (almeno nei suoi stili e nei suoi risultati ultimi).
Coltivato come una forma di moda e di comunicazione interpersonale, l’autolesionismo non è allora più da considerare una semplice psicopatologia bensì una forma complessa di “perversione morale”, gli strumenti della cui risoluzione dovranno pertanto essere non solo psicologici ma anche di carattere psico-sociale, politico e culturale.
La patologia rivela, dunque, una grave lacuna culturale: la società attuale si mostra esperta nella gestione fisica delle persone (sacralizzando il concetto di salute del corpo e di amore di sé), di fatto però fingendo di ignorare che la salute del corpo è un effetto della sua libertà; e che la libertà del corpo coincide sempre con una coscienza personale in grado di opporsi in modo fruttuoso ai condizionamenti sociali.
In sintesi, ciò che manca al giovane autolesionista è il pieno sentimento del diritto a opporsi al dogma sociale che comanda la fruizione passiva del benessere fisico piuttosto che l’analisi profonda del malessere psichico, sia personale che collettivo. Da una parte la sua famiglia vive immersa in una psicologia di beni e di sicurezze fisiche; dall’altra, la società intorno lo espropria del corpo (come fa con tutti), per metterlo a servizio dell’industria del benessere, delle politiche sociali e di una medicina sempre più invasiva e coattiva. In questo panorama di controllo assoluto dei corpi a tutto sfavore del rispetto per la psiche individuale e la dignità della persona — che comprende il diritto diproprietà sul corpo personale — l’autolesionista gioca la sua partita di resistenza: un lento, inesorabile teatro della violenza e della provocazione.
Era chiaro nell’articolo il conflitto in atto fra diversi modelli culturali e valoriali. In esso era dunque già delineato un preciso campo di ricerca.
Il secondo articolo che gravitava intorno al concetto di Psicomemetica senza tuttavia esplicitarlo è stato quello di Francesco Napoleoni dedicato al fenomeno dei nerd e dei geek10, gruppi di individui “matti” per l’informatica, articolo nel quale fra l’altro è scritto:
È importante notare che il lavoro di queste persone era per loro un’attività totalizzante— quasi una “missione” —, che influenzava la loro Weltanschauungin maniera molto profonda: i vari gruppi di lavoro formavano quasi delle comunità a sé all’interno degli atenei e nei laboratori delle grandi aziende, con una propria cultura, un proprio linguaggio, le proprie idiosincrasie.
E di seguito:
Un’ulteriore sottocultura, analoga a quella geek ma proveniente dal Giappone, è quella degli Otaku, cioè gli appassionati in maniera ossessiva soprattutto di Manga e Anime e videogiochi, la quale cela purtroppo anche una quota di individui disagiati, chiamati Hikikomori, che si autoconfinano in casa, rifiutando il contatto con la loro società e rifugiandosi nel mondo parallelo della Rete, passando le proprie giornate tra il letto ed il computer; talvolta questi individui albergano delle depressioni gravi o delle psicosi, ed una certa percentuale commette suicidio (…). Il fenomeno Hikikomori sta creando un crescente allarme sociale in Giappone, ove si stima che riguardi circa il 20% dei giovani.
A questi articoli fecero seguito due ottimi lavori di Michela Guerra: il primo, Le immagini giovanili della morte11, dedicato al fenomeno sociale dei ragazzi Emo. Il secondo, ancora più ricco di riflessioni, dedicato appunto alla comunità memetica giapponese degli hikikomori.12
In aggiunta a queste considerazioni, l’articolo appena citato di Michela Guerra presenta per la prima volta il concetto di Noi antitetico ricalcato su quello già noto di Io antitetico. Il concetto è di grande interesse, quindi – ringraziando Michela Guerra per avercelo fornito – l’ho assunto come parte integrante della teoria.
A seguito di questi articoli, mi misi d’accordo con un mio collaboratore per aggiungere la sezione “Psicologia e memetica” alla voce “Meme” sull’enciclopedia telematica Wikipedia. Scrivemmo e pubblicammo il brano che brano:
«Memetica e Psicologia
Un campo di studio molto fertile ma ancora poco indagato è quello che studia le relazioni fra l’influsso memetico e la psiche individuale. Spunti interessanti sono presenti nell’opera di Susan Blackmore La macchina dei memi. Nell’ambito della Psicologia struttural-dialettica (che inserisce lo studio della psiche individuale nel campo della storia sociale), una feconda ipotesi relativa al rapporto fra memi e psiche individuale è stata di recente presentata da Nicola Ghezzani nel suo libro La logica dell’ansia(2008). Nel libro, Ghezzani identifica i valori sociali con i memi, affermando fra l’altro:
Nel corso dell’evoluzione l’uomo ha dovuto apprendere a effettuare una valutazione selettiva dei valori, perché la sola sensibilità, in assenza di capacità riflessive, si limitava a interiorizzare differenti modelli, producendo in tal modo un paesaggio sociale e mentale saturo di messaggi contraddittori, che impedivano l’azione individuale coerente e che andavano pertanto risolti. Queste entità culturali possiamo chiamarle tanto idee o valori, quanto memi (p. 124).
Secondo Ghezzani la base dell’imitazione e della replicazione memetica è la sensibilità. La crescente necessità imitativa Intesa come fattore evoluzionistico ha selezionato individui umani dotati di empatia, quindi sensibili. L’eccesso empatico-imitativo, tuttavia, è tale da indurre nella psiche individuale e quindi nella cultura conflitti memetici che l’evoluzione umana va ulteriormente risolvendo mediante la comparsa di individui umani abili nell’attitudine soggettiva alla riflessività e alla introversione. Mediante la riflessine e l’introversione il conflitto memetico avviene in modo sempre più consapevole, quindi co-adattato.
Questa ipotesi si allaccia al concetto di processo di individuazione di Carl Gustav Jung. Secondo Jung, il processo di individuazione fa sì che ogni individuo sviluppi il proprio Sè, che potrebbe essere inteso sia come complesso di archetipi sia come complesso di memi. Il rapporto tra psicologia e memetica può essere definito psicomemetica.»
Pochi mesi dopo, tutti i riferimenti a me e ai miei lavori erano stati cancellati. La mia scarsa attitudine alla “ripetizione memetica” – necessaria a imporre un meme – ha fatto sì che il termine Psicomemetica non sia ancora un meme virale. Non di meno, sono certo che un giorno si imporrà: il concetto di Psicomemetica (o Psicologia memetica) esprime uno straordinario potere esplicativo nei confronti di molti fenomeni che la psicologia intuisce, ma non riesce ancora a mettere a fuoco.
Per contattare l’autore scrivigli una mail nicola.ghezzani@email.it
o un messaggio su WhatsApp 333 999 4797
Note
- https://it.wikipedia.org/wiki/Richard_Dawkins
- https://en.wikipedia.org/wiki/Kenneth_Lee_Pike
- Cfr: Kiss T., Alexiadou A., Sintax – Theory and analysis, Vol I. De Guyter, Berlin, 2015, p. 149: «Language is just one aspect of overall human behaviour and that human behaviour is, in general, meaningful and cast into specific structural moulds called behaviourems».
- Dawkins R. (1976), Il gene egoista, Mondadori, Milano 1992
- Ghezzani N., La logica dell’ansia,Franco Angeli, 2008., p. 124.
- Ghezzani N., Psicomemetica, http://asip.wikidot.com/ipotesi-e-ricerche-scientifiche:psicomemetica
- Ghezzani N, La logica dell’ansia,Franco Angeli, 2008
- Dawkins R. (1976), Il gene egoista, Mondadori, Milano 1992.
- Autolesionismo e introversione. Il bisogno di farsi male http://asip.wikidot.com/psicopatologie:autolesionismo-e-introversione
- Napoleoni F., Dei nerd e dei geek, http://asip.wikidot.com/ambiente-sociale:dei-nerd-e-dei-geek
- Guerra M., Le immagini giovanili della morte, http://asip.wikidot.com/ambiente-sociale:le-immagini-giovanili-della-morte
- Definisco “comunità memetica” un gruppo la cui condivisione di unità memetiche (mode e modi di essere) non coincide necessariamente con un consapevole sentimento di appartenenza e con occasioni di incontro fisico e di reciproco riconoscimento. La comunità, dunque, è dei memi più che degli individui, e “usa” gli individui per definirsi e riprodursi.