Il labirinto (terza parte)
di Nicola Ghezzani
Incontri e altre solitudini
Solitudine. L’estasi di Arianna
Non sono più donna nelle tue mani
nei tuoi occhi, nella tua mente,
come fui quando tu mi conoscevi.
Non ho più uno sguardo per vedermi.
Ho perso ogni sembiante umano. Tu
m’hai lasciata muta come una statua
scolpita dal mare nella più aspra roccia.
Nera, scavata da un dolore che scorre
coi flutti salmastri. M’hai inaridito
gli occhi, non ho più parole – l’odio,
rapido come fiamma, me l’ha spezzate
in gola. Io non fui mai abbastanza per te,
non fui grembo, né cosce, mani o ventre,
né le spalle che presero gli urti
del tuo inesausto lavoro, né il cuore
che ti porse amore ad ogni istante.
Ma se non m’avessi lasciata inerte
in questa stanza nuda, se cieca
non m’avessi gettata in questo buio,
io non avrei guardato mai oltre
il confine della morte e incontrato
la pietà di Dioniso, il selvaggio iddio,
e mai avrei vissuto in estasi – l’anima
sprofondata più del mare, perduta
più del sogno, più dell’assoluto oblio.
Teseo e Asterione
Teseo:
«Il tuo sangue mi schiarì la mente.
Era il mio stesso sangue – ma avvelenato.
Vi brulicavano le serpi dell’odio
per colui che cieco di vergogna
t’aveva privato d’ogni speranza
e imprigionato in un castello immane –
condannato alla ferocia
d’una devianza senza meta.
Privato della luce dello sguardo,
trattato come un putrido animale
ti consolavi con l’ira e con gli scempi.
Non sapevi dove volgere la furia
e divoravi a brani i corpi inermi
dei miei più amati cari – le mogli
non sposate ed i guerrieri ancora intatti
e i figli che non sarebbero venuti.
Tu non sapevi d’essermi il Contrario.
Una patria hai voluto decimare,
costretta al servizio del nemico,
immersa nel terrore. Hai voluto
condannare ad un eterno sogno
la celeste sovranità di Atene».
Asterione:
«Ora so ch’ero accecato dal lampo
infernale, che mi chiedeva gloria
che da tenebra ascendesse a pura
luce. Ma non avevo occhi, specchi,
la dolcezza del parlare, una moglie
nel cui ventre versare il seme informe.
Né potevo riconoscere le norme
delle città, dei porti, delle strade,
dei traffici geometrici del mare».
Teseo:
«Ora tu sei in me il gemello d’armi
e di prudenza. Io non ti rinnego.
Ora sei il rovescio della mano.
La tua morta potenza ogni giorno
si trascende nel mio intelletto.
Dal sangue sovrumano altra coscienza
prego, che come sole irradi intorno».
Teseo. L’insidia più abissale
In un sonno o una visione m’apparve
il dio Dioniso l’Oscuro, ruggente
come mille e più leoni addensati
in un coacervo immane o come l’immenso
Nulla che a Oriente apre le sue porte.
Mi disse «E’ mia, rendila al suo Padrone
e ti prometto che non impazzirai».
L’abbandonai nell’isola di Dia.
Tagliai via un pezzo del mio cuore.
Era il più sensuale e forte,
era il mio indomito coraggio
e l’abbandonai al dio d’Oriente.
Quel Dioniso splenetico e selvaggio
che attraversa le piane d’Asia
col passo dei giganti per scendere
nel mare e riapparire fra le isole
di Grecia, coperto di tentacoli
e conchiglie, m’ispirò col terrore.
Lasciai parte di me, la più devota
e estranea – la Conoscitrice del Male.
Artista dei disegni e dell’amore,
quell’Arianna amante dell’Altrove,
la sorella gemella del mistero.
L’altra faccia del mostro, del retto
mio pensiero l’insidia più abissale.
Teseo e Edipo. Un incontro
Io sono l’altra faccia della medaglia,
l’esistenza rovesciata di quest’uomo,
il suo atroce specchio ustorio.
Lui è fiamma e insieme cenere.
Io sono il re Teseo, lui è Edipo.
Entrambi abbiamo ucciso un mostro
e meritato un regno. Ma io
regnai a lungo nella città celeste
e divenni luce che colpisce l’ombra,
l’albero da frutto inghirlandato,
il giardino ridente sotto i passi calmi,
città che naviga su bianche spume.
Io sono il popolo che mi saluta
perché danzo su calzari alati
mentre un dolce vento m’accarezza
chioma e barba – bianche come le nubi,
pettinate fra profumi d’essenze.
Lui è il mostro che ha risolto l’enigma
e giustiziato un altro mostro – è Edipo,
che ha irriso l’atroce Sfinge. Ma è anche
un padre che ha assassinato il proprio padre,
un figlio che ha generato dalla madre.
Lui è l’ombra che logora la luce,
il ramo nero che in silenzio freme,
radice senza l’acqua, albero vizzo
e secco abbandonato al suo destino.
Lui fu due città ed ora è soltanto l’orribile
deserto che ha accolto i suoi piedi
informi e l’ossessione del ricordo:
una madre che rese vedova e fu
fecondata col seme del figlio,
un ventre che tre generazioni infette
accolse per gettarle a caso. Io re
di Atene, aduso a mari e terre, avrei
voluto dargli pace come a un fratello.
Ma lui si gettò indosso il mantello
degli dei, che lo rese invisibile. Capii
d’un tratto la mia follia. Pensavo
che fosse un abominio indegno,
che fosse un cieco nulla. Ed era invece
una figura emblematica, immensa –
segno tracciato nella lingua degli dei
ad indicarci un percorso di sapienza.
Divenne Eroe, santificato dal regno.
Solitudine. Il compimento di Edipo
Molti anni fa – sembra un tempo infinito –
quando volli far scempio della luce
e della vita con le spille della madre
sciagurata che m’introdusse al mondo,
sognai, una notte, un sogno spaventoso.
Battevo – forte – coi pugni chiusi
e le palme sporche di sangue
il portone della mia stessa casa.
In alto, oltre quel muro di legno chiaro,
eran nati i miei figli. Ma la porta
era serrata, nessuno poteva aprirla
e nemmeno raccogliere il mio pianto.
Il mondo era deserto, l’umanità scomparsa,
il vuoto assoluto mi circondava.
Come fosse tenebra in piena luce.
L’anima mia vagava insonne,
immersa in quella fredda dannazione.
Moltitudini passarono di sogni.
Moltitudini affollate di giorni.
Poi, obliato il rumore del tempo
che mi lavò com’un sasso la mente,
una notte tornai ancora, in sogno,
a fronteggiare quell’uscio chiuso.
E al tocco leggero della mano – quasi
non l’avessi nemmeno sfiorato – il portone
docile s’aprì, come fosse una tremula
tenda mossa da un vento impalpabile.
Il portone non era più di legno.
Era di metallo e verniciato scuro,
nell’armatura brillavano cristalli.
Là, oltre l’androne e poi l’ingresso,
dormiva la casa in silenziosa attesa.
Là m’attendevano le foto dei morti,
nelle cornici brillanti, e dei molti
figli che ho generato. M’attendeva
il fascino d’un suono immateriale –
di un canto che non aveva voce.
Seppi allora che quella porta –
che s’apriva leggera, che la mia mano
sfiorava appena – lei era l’ultima
porta, prima di sfarmi nella luce.
L’intero universo è un labirinto
L’intero universo è un labirinto
con fauci, artigli e un rostro informe.
Ad ogni via s’annida un errore,
ogni sua voluta
suscita l’orrore
del vuoto e dell’abisso.
Quaggiù ogni donna
t’ama come nessun’altra,
eppure brama la tua morte. Sta
ai confini dell’Inferno
che devi attraversare. Sembra
armata del tuo stesso orgoglio.
Eppure, per quanto innamorata,
lei è l’Altra, l’Archetipo
degl’infiniti abbagli – lampo
destinato a un dio.
Come un falso idolo
sappi dimenticarla
su un isola perduta,
sulla riva di un mare.
Poi, come in uno specchio,
sogna ancora l’accaduto.
Tu t’avventuri e incontri
nel cuore del groviglio
Lui, il mostro –
che ti guarda dal profondo
del tuo stesso volto.
Non sottovalutare la sua esistenza.
Anche se può sembrare un sogno
Lui nasce dalla tua stessa ombra.
Nasce dalla tua viltà più ambigua
e cresce ad ogni tua nuova desistenza.
L’intero universo è un labirinto.
Sappilo. Lo sarà sempre.
Sta ovunque il tuo cuore possa andare.
Non credere che sia soltanto un simbolo.
Non è poesia. Nessuno lo ha dipinto.
Domani
Cominciai a riflettere su me stesso.
Fu come conoscersi in volto nell’acqua
d’un lago immoto o d’uno stagno.
Vedervi tremare il liquido riflesso
dei pensieri a tal punto mi piacque
da esserne irretito – come se un ragno
avesse tessuto una tela di sogni
sul cui disegno plurimo lo sguardo
mio vagava come cervo in un bosco.
Mi distrassi in quell’ignoto regno
tanto a lungo che il disordine
m’assediò la mente, e un fosco
intrico d’immagini e visioni
parve distruggermi l’anima.
Un groviglio d’incubi e di strade.
Ma poi m’apparve la scissione,
ed ebbi d’un tratto fra le mani
due mondi sparti come Cielo e Ade.
Teseo e il Toro nel labirinto
ancora si batteranno, domani.
Oscilleranno Caos e Redenzione.
Ma anche il duello è solo un’illusione.
Il nemico non è la morte – è l’immane
Caos. Sembrava invincibile – e fu vinto.
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