Femminicidio: realtà, cause e prevenzione
di Nicola Ghezzani
Origine e significato del termine
“Femminicidio” è un neologismo di immediata comprensione. Il suo significato più essenziale lo si può desumere, per analogia, dal termine “infanticidio”.
Per infanticidio si intende la soppressione volontaria e violenta di un bambino da parte di un adulto. Se i concetti di infanticidio e femminicidio vengono estratti e distinti dal contesto più generale dell’omicidio è perché essi indicano la soppressione violenta da parte di un agente che detiene, rispetto alla vittima, un incolmabile divario di potere. Dunque, solo l’adulto (non l’altro bambino) commette infanticidio; solo il maschio (non l’altra femmina) commette femminicidio. Il termine femminicidio è dunque volto a identificare un tipo specifico di omicidio, quello effettuato da un uomo nei confronti di una donna proprio in quanto donna.
La prima ad adoperare questo termine fu Marcela Lagarde, un’antropologa della condizione femminile, coinvolta dal 2003 al 2006 nella vita politica del suo Paese, il Messico. Lagarde coniò il termine in occasione della strage delle donne di Ciudad Juárez, e lo adoperò per indicare la violenza fisica, psicologica, economica, istituzionale, rivolta contro la donna in quanto donna. Ella si impegnò per il riconoscimento giuridico del femminicidio come reato specifico – una variante grave dell’omicidio – e come crimine contro l’umanità.
Le condizioni per il femminicidio si hanno quando lo Stato (o qualche sua istituzione) non offre alle bambine e alle donne le condizioni di sicurezza necessarie a garantire loro il rispetto e la vita nelle famiglie, nelle comunità e negli ambiti lavorativi. A maggior ragione, il femminicidio è da considerarsi un crimine di Stato quando lo Stato è parte strutturale del problema per il suo carattere maschilista e per la preservazione di un ordine disparitario.
Il femminicidio può insinuarsi soltanto in un clima di disuguaglianza strutturale fra uomini e donne. Nell’atmosfera di maschilismo e misoginia che domina in gran parte del mondo, la donna continua ad essere tutt’oggi il genere sottomesso e la classe inferiore, come lo è stata ovunque per millenni. Sulla base di questo pregiudizio, le culture e gli Stati hanno imposto un “patto gerarchico” per il quale la donna può e deve sentirsi in obbligo di subire la volontà e l’arbitrio dell’uomo.
Non di rado, dunque, alle condizioni culturali di disparità di genere ereditate da un passato si somma l’assenza di garanzie giuridiche e di politiche democratiche da parte degli organi di giustizia e di governo, che si rendono in tal modo complici dell’impunità dei colpevoli.
Il femminicidio oggi. Perché se ne parla
Il concetto di femminicidio illumina una realtà devastante su cui tutte le società del mondo hanno steso un velo di omertà, quindi di complicità.
Oggi sono ancora molte le società nelle quali possiamo vedere in azione una mentalità barbarica intesa alla sopraffazione totale del genere femminile: una quantità enorme di feti femmine viene abortita per volontà dei genitori in Paesi come la Cina e l’India; in molti Paesi, non solo islamici, alle ragazze viene proibita la libertà di pensiero, pena l’uccisione, e le donne vengono lapidate da branchi di uomini che si ergono a rappresentanti di Dio. L’omicidio rituale della donna nei regimi teocratici e quello per violenza singola o di gruppo in atti di criminalità sessuale, che avviene da sempre e ovunque nel mondo, lo effettuano perlopiù maschi sconosciuti su donne sconosciute, solo perché sono donne da predare, violare, punire, brutalizzare, uccidere. Essi rispondono ad un codice sociale di sopraffazione.
Ma quando il femminicidio avviene frale mura domestiche o comunque da parte di un compagno o di un parente è persino più scioccante. Fino a qualche decennio fa nel codice penale italiano esisteva la fattispecie del “delitto d’onore”, che implicava che se compiuto da un marito geloso che si considerava offeso nella sua dignità, l’omicidio della moglie era considerato meno grave e poteva risolversi con una pena mite. All’epoca del delitto d’onore, quella italiana era una società confessionale: il divorzio era osteggiato dalla gerarchia cattolica e dai suoi partiti di riferimento, la sessualità prematrimoniale era considerata immorale, l’aborto e la prostituzione erano trattati come crimini. Dopo l’abrogazione del reato di adulterio nel 1968, dopo l’introduzione del divorzio nel 1970 (legge 898), dopo la riforma del diritto di famiglia nel 1975 (legge 151), dopo l’introduzione dell’aborto nel 1978 (legge 194), le disposizioni sul delitto d’onore sono state finalmente abrogate il 5 agosto 1981 (legge 442). Meno di quarant’anni fa.
Ebbene, qui in Italia questo delitto – benché non sia più trattato con riguardo dalla Magistratura – è tuttora parte della cultura corrente: alla fine dell’anno le cifre sono impressionanti. In media, in Italia ogni tre giorni una donna viene assassinata; e gran parte di questi omicidi sono compiuti da compagni, mariti, parenti e spasimanti delusi.
Di questo delitto se ne parla con rinnovato vigore per tre motivi.
- Innanzitutto per lo scandalo di tanta atrocità in una civiltà come la nostra che ha abiurato – almeno formalmente – la violenza. A fronte di tante dichiarazioni di bontà e generosità sociali nonché di parità fra i sessi gli omicidi di donne continuano ad essere frequenti e particolarmente vili.
- Il secondo motivo è che il femminicidio, oltre ad essere quel ripugnante delitto di genere che sappiamo, è anche una delle variazioni del non meno ripugnante delitto del forte contro il debole. In questo caso si appaia all’infanticidio e alla violenza nei confronti degli infermi e degli anziani.
- Infine, ultimo motivo della sua dolente attualità, il femminicidio rivela lo scandalo del delitto compiuto in famiglia, dal marito o dal fidanzato o dall’amante nei confronti della compagna e persino del padre nei confronti della figlia e del figlio nei confronti della madre.
La principale variabile da valutare rispetto al delitto classico, di pura prepotenza, è la collusione che in non pochi casi la donna mostra di avere intrattenuto col suo carnefice. Spesso vittima e carnefice hanno condiviso un matrimonio consolidato dalla nascita di figli, una lunga relazione erotica, il facile perdono ai primi atti di violenza, e persino la provocazione della sfida aggressiva e dell’ostentazione di libertà da parte della donna quando infine lei non ne poteva più. Una collusione che lascia intravedere i codici di quel sadomasochismo morale che ho descritto in molti dei miei libri.
Questi codici mentali segnalano che la coscienza maschile e femminile è strutturata da sistemi di valori che fanno della donna ora una schiava affettiva, ora una ribelle destinata alla punizione.
Cause psicologiche
Al di sotto della rabbia e dell’odio manifesti nella fase di persecuzione che precede il delitto e nel delitto stesso,
l’uomo prova una segreta e vergognosa paura nei confronti della donna. Perché? Perché di fatto è avvenuta la rottura del “patto gerarchico” sul quale egli fondava una parte fondamentale della sua sicurezza. La classe a cui appartiene ha perso il potere che deteneva, ma lui non lo ha accettato ed è rimasto legato ai vecchi valori. Era abituato a considerarsi parte di una classe maschile rispettata e servita dalle femmine, ma il gesto libero della donna gli ha sottratto questa certezza. È noto il caso delle ragazze musulmane segregate in casa e uccise nel caso si innamorino di un occidentale; non diverso è il caso della giovane donna di qualunque cultura, anche italiana, che alza la testa contro l’uomo, dichiara di volerlo lasciare, talvolta gli preferisce un altro uomo, e per questo viene uccisa.
Il crollo repentino della sua immagine narcisistica genera allora nell’uomo un’angoscia di minorazione e un sentimento di umiliazione insopportabili. E poiché è prigioniero del mito gerarchico e non riesce a integrare un sentimento di parità – pari dignità fra uomo e donna e reciprocità dell’amore –, quell’uomo può soltanto ribadire il suo potere e vendicare la degradazione sociale che ritiene di aver subito.
Dunque l’uomo che si rende attore di violenza nei confronti della donna e infine di femminicidio è un uomo che ha paura della donna,
perché la sente in antitesi
rispetto al suo mondo e alla sua ideologia, quindi come un’insidia alla dignità e alla
sicurezza raggiunte. Quando la aggredisce lo fa perché si ritiene da lei minacciato e offeso, persino sminuito nel suo potere e sfidato nella sua dignità di maschio. In lui agisce una risposta al terrore e un impulso vendicativo.
L’angoscia di essere tradito – sia fisicamente che moralmente – può declinarsi in lui come gelosia morbosa, angoscia di tradimento e di abbandono, rabbia per essere stato messo in difficoltà; l’atto libero della donna lo interpreta come una sfida che disseppellisce la sua nascosta insicurezza e lo costringe ad agire in modo punitivo, per reprimere l’angoscia di essere un debole, di far parte della classe dei perdenti.
Potere, maschilismo e virilità. Sulla prevenzione
Dunque ai fini di una politica di prevenzione del delitto di genere occorrerebbe tenere ben presenti i seguenti fatti:
- la predisposizione del carnefice alla violenza, talvolta ostentata ma più spesso celata da una carattere ambivalente e narcisista;
- la possibile collusione della vittima, celata dalla tendenza a idealizzare il rapporto e dalla devozione servile vissuta come amore;
- il codice mentale maschilista di uno o di entrambi che, dando all’orgoglio e all’emancipazione femminili una connotazione negativa,
favorisce il delirio di punizione maschile; - la persistenza in menti apparentemente evolute di codici giuridici patriarcali e di codici maschilisti sopraffattivi. Questi codici siamo perfettamente in grado di vederli in azione nei loro rituali funesti in società a noi contemporanee: la lapidazione e la fustigazione islamiche; l’obbligo islamico del burqa; il rito africano dell’infibulazione; la deturpazione vendicativa del volto femminile con acido in India; l’esecuzione criminale della prostituta disobbediente così frequente negli ambienti dell’immigrazione in Europa ed endemica in Centro America. Ma abbiamo perduto la capacità di vederli in azione nel nostro mondo, che si presume civilizzato.
Il superamento sociale, oltre che psicologico, del femminicidio presupporrebbe pertanto un’analisi accurata dei codici mentali e sociali di un certo mondo arcaico tuttora vivo nelle pieghe della cultura occidentale, che solo una rimozione collettiva rende ancora impenetrabili all’analisi.
Occorre dunque fare una distinzione fra potere e virilità. L’uomo che arriva a picchiare o uccidere la propria donna lo fa solo in apparenza per difendere la propria virilità (e in qualche psicopatologia egli ritiene di farlo davvero per questo: minacciato da angoscia di inadeguatezza e da impotenza esistenziale e sessuale). In realtà l’uomo difende sempre e soltanto il suo potere, surrettiziamente identificato con la virilità.
In termini sani e maturi, la virilità si configura come un rapporto con se stesso e con la partner sorretto da un principio etico. La virilità non va confusa né con il potere né con l’erotismo consumatorio: l’uomo virile è profondamente morale, non agisce mai in modo da danneggiare la donna né soverchiandola col suo potere, né seducendola col sesso, profittando di un bisogno romantico della donna o di una sua propensione alla trasgressione. Quindi la violenza alla donna avviene sempre come esercizio di un potere isolato o di branco, non come espressione di virilità.
La violenza si esercita sempre come una forma di punizione: un potere (di un marito che si sente messo in ridicolo o in gravi difficoltà economiche, di un partner che ha paura di restare solo, di un branco di maschi che si sentono offesi dalla libertà di una ragazza che va in giro a viso scoperto o con il corpo esaltato da un abito elegante) si sente messo in minoranza, si sente costretto all’angolo, e reagisce con un automatismo punitivo. Il potere insidiato ricava sempre un piacere perverso nel trovare una classe “colpevole” da assoggettare. Ma l’espressione punitiva di questo potere si chiama sadismo e non va in alcun modo confuso con la virilità.
Non c’è dubbio che la violenza viene scatenata sempre da una qualche forma di emancipazione femminile. L’emancipazione femminile è un fenomeno antropologico e sociale sempre positivo perché riequilibra il potere generale. E noi siamo tenuti a difendere l’emancipazione femminile anche in quei casi minoritari in cui la donna sbaglia: cioè quando provoca la reazione aggressiva dell’uomo con atteggiamenti sfidanti e con la derisione. Anche in questi casi, l’uomo virile è in grado di capire e sopportare l’offesa; per contro, l’uomo insicuro si sente minacciato nel suo potere e quindi reagisce con la violenza.
In questo senso sono molto utili quei messaggi culturali nei quali la virilità maschile venga rappresentata da individui socialmente apprezzati che prendono posizione non solo contro il delitto, ma anche a favore di una reinterpretazione dei codici di virilità. Virile è l’uomo che si confronta con la donna in un regime di parità e che individua in lei non la minaccia alla sua identità, ma la fonte primaria della sua energia vitale. Così come sono utili quei messaggi culturali nei quali la femminilità sia rappresentata da donne che non solo condannano il delitto e fanno squadra con le altre donne, ma che anche indichino all’uomo come la via alla dignità sociale e alla forza del carattere passi attraverso la solidarietà fra i generi e il riconoscimento del simile.
Per contattare l’autore scrivigli una mail nicola.ghezzani@email.it
o un messaggio su WhatsApp 333/99.94.797