Una vita sotto controllo
di Lucia Giombini
La lista delle cose da fare e i suoi sintomi
Roberta si presenta con un sorriso brillante e fiducioso. Ha bisogno del mio aiuto perché soffre di una terribile gastrite, ormai da anni. Sta per laurearsi in medicina. Non è ancora un medico, no, ma crede di essere abbastanza esperta da sapere scegliere il farmaco giusto e gli appropriati accorgimenti per curare una gastrite. Al dunque, però, non ce l’ha fatta. Sa benissimo di essere ansiosa, soprattutto da quando ha iniziato la carriera universitaria. Il percorso di studi è così martellante e competitivo che non vede l’ora di portarlo a termine. Pensa, però, che non può permettersi di intraprendere la professione di medico, soffrendo di un sintomo così sciocco, per di più di natura psicosomatica.
A parte questo problema, nella sua vita scorre tutto bene. Non c’è mai stato nessun intoppo. Suo padre è medico, la madre avvocato, ed ha un fratello di poco più giovane di lei – il piccolino della famiglia – che studia ingegneria. È felicemente fidanzata ormai da sette anni. Tutto sembra procedere regolarmente.
“E poi faccio le liste delle cose da fare”, mi dice al termine della prima seduta. La sua espressione si colora di un leggero imbarazzo, come quella di un bambino che ha paura di essere sgridato per non aver fatto i compiti. Con il suo sorriso sempre fervido, continua a rassicurarmi che la prossima volta me ne parlerà. E mi invita a capire che non era facile per lei chiedere aiuto per un problema così banale.
Roberta, nei periodi di maggiore ansia, si appuntava minuziosamente tutto quello che avrebbe dovuto fare durante la giornata: svegliarsi; alzarsi dal letto; fare la doccia; vestirsi; dare il buongiorno al suo fidanzato; fare colazione; uscire di casa; prendere i mezzi per andare all’ università; e così via. Ogni minimo particolare era scritto nella sua lista che acquisiva il valore sacro di un talismano da portare sempre con sé. Tutto questo toglieva tempo allo studio e al lavoro. Non riusciva più a concentrarsi sui suoi impegni e aveva paura di bloccarsi da un momento all’altro. La sera, era il momento più difficile perché non riusciva a mettere un punto a tutti quegli ordini. Allora, chiedeva aiuto al suo fidanzato.
“Roberta, puoi spegnere la luce e dormire, hai lavorato abbastanza”, le rispondeva con amore. Rassicurata da quel pacato beneplacito, finalmente cercava di riposare, per svegliarsi la mattina, di nuovo stanca come sempre.
La legge morale dentro di lei
Era come se Roberta si sentisse telecomandata, ma da chi? Era come se ci fosse un’autorità esterna ad osservarla di continuo. Ogni gesto e decisione erano scelti con estrema attenzione ed eseguiti in modo misurato. La sua identità di figlia, di medico, di amica e di compagna doveva essere impeccabile davanti al giudizio degli altri.
In primis,di suo padre, medico anche lui, ormai al termine di una carriera integerrima. Egli aveva sposato le regole del sistema ospedaliero e lavorando sodo aveva salvato la vita di tanti bambini. Si aspettava che la figlia facesse altrettanto, senza troppi tentennamenti e contestazioni. Roberta lo ammirava molto, ma al tempo stesso non riusciva a capire come si potesse diventare dei bravi medici all’interno di un sistema caratterizzato da una gerarchia severa. Un ambiente in cui i professori non potevano essere contestati e gli studenti venivano spronati a competere tra di loro. L’orario di lavoro per la maggior parte era assorbito dall’apprendimento mnemonico di tutte le malattie possibili e dalle pratiche amministrative, e sottratto al tempo dell’incontro umano e della conoscenza profonda dei pazienti. Roberta, invece, avrebbe voluto formarsi alla cura degli altri, ma l’ospedale le appariva disumano.
Come poteva suo padre non notare le contraddizioni del sistema? Come mai lui non mostrava mai alcuna frustrazione?
Ogni volta che questi sentimenti di dubbio e di ostilità venivano a galla, lei inconsapevolmente li respingeva attraverso regole e rituali, che non solo controllavano la sua giornata, ma anche le sue emozioni. Aveva imparato a farlo fin da piccola, comportandosi sempre da bambina brava e diligente, per lasciare spazio al fratello più vivace e bisognoso di attenzioni.
Non solo, ogni volta che la sua routine operosa era interrotta dall’emotività di un innamoramento, di un entusiasmo adolescenziale o di una qualunque preoccupazione, lei era richiamata dalla famiglia allo studio e al dovere. Gli insegnanti l’avevano sempre premiata per il successo scolastico, e i professori universitari continuavano a fare altrettanto. Non c’era spazio per le sue emozioni, che negli anni hanno iniziato a prendere la forma di sintomi fisici come la gastrite e gli stati ansiosi intensi. Ogni volta che cercava di esplorare i propri bisogni e le proprie idee, il rituale delle liste delle cose da fare, con cui mostrare a sé stessa e agli altri che tutto era sotto controllo, la teneva in scacco.
Si mangia solo quanto basta
Anche il cibo era sotto controllo. Roberta amava cucinare, ma si spendeva ai fornelli soprattutto per gli altri. Organizzava cene deliziose e ogni volta proponeva un menù diverso. Era felice di ricevere i complimenti dei suoi ospiti, anche se cominciava a sentirsi stanca di dar da mangiare solo a loro. Per sé stessa contava le calorie. Fin da adolescente era riuscita a mantenere il suo peso nella soglia più bassa del normopeso.
L’ago della bilancia non si era mai spostato di un millimetro. Un chilo in meno e sarebbe stata sottopeso, e il rigore medico non glielo consentiva. Un chilo in più e si sarebbe sentita in colpa per aver mangiato più del necessario. Questi segni, pur non consentendo una diagnosi di anoressia nervosa secondo i manuali diagnostici, tratteggiavano tuttavia un atteggiamento anoressico di tipo restrittivo. Il cibo aveva una mera funzione di sopravvivenza, ed era deprivato del suo valore di piacere personale e di condivisione sociale.
L’atteggiamento verso il cibo era lo stesso che Roberta aveva nei suoi confronti. Lei non si riconosceva come una persona con i propri bisogni affettivi e relazionali, ma si relegava ad essere una sorta di funzionario dei codici del sistema familiare, universitario e sociale, interpretati in modo rigido ed assolutistico.
Il perfezionismo: un dialogo mancato
La struttura di personalità di Roberta era organizzata sul registro del perfezionismo ossessivo. I suoi bisogni individuali erano soffocati dalla paura di deludere e non essere accettata dagli altri. I sintomi sia fisici sia psicologici, e la frustrazione e il malessere provati, le segnalavano che il suo ideale di perfezione morale non le consentiva di vivere la sua vita, ma solo di assecondare le aspettative familiari e sociali. Roberta aveva provato una forte vergogna nel chiedere aiuto, perché tale richiesta invalidava il suo stesso ideale di autosufficienza e controllo di sé. Nel momento in cui lo fece, però, riconobbe subito che non sopportava e non desiderava più sottostare a quel regime di vita così rigido e senza storia.
Il perfezionismo non è mai uno stile di vita scelto dal soggetto, ma una disciplina basata sulla schiavitù interiore, senso di inadeguatezza e disvalore. È sottesa da una dinamica che comporta da una parte una coercizione a fornire performance sociali e morali eccellenti, e dall’altra una forma di opposizione espressa da sintomi fisici e psicologici che mirano ad allentare il regime di schiavitù. Il naturale bisogno di appartenenza e di integrazione sociale, attivo fin dalle prime fasi evolutive, consente l’interiorizzazione delle aspettative e dei valori culturali dell’ambiente. In un soggetto dotato di una forte sensibilità sociale, i valori collettivi e morali esterni sono estremizzati ed interiorizzati in modo assolutistico, tanto da bloccare l’espressione dei propri bisogni.
È attraverso l’imposizione del proprio dovere che Roberta si dedicava agli altri, senza mai consentirsi di abbandonarsi all’empatia per stabilire relazioni interpersonali congruenti. È come se vivesse alla stregua di un robot. Il processo terapeutico l’ha invitata a cogliere le emozioni implicite nei suoi sintomi. Sia quelli di rabbia e frustrazione per le richieste performative provenienti dal sistema familiare e universitario sia quelle di gioia per l’interesse genuino che nutriva nei confronti del medico che avrebbe voluto diventare.
Roberta ha dovuto ristabilire un dialogo critico e responsabile con l’ambiente sociale, utilizzando la sensibilità delle proprie risorse personali. Insieme, abbiamo dovuto rivedere anche la sua idea di servire gli altri. Non più come concetto puramente funzionale, legato all’efficienza tecnica e meccanica richiesta dal sistema sociale anonimo, ma come idea più umana ed estetica che richiede un contatto genuino, un coinvolgimento personale ed una sensibilità autentica per la natura propria e altrui. Un ritorno liberatorio ai principi dell’idea greca del therapeutes, come colui che è attento e rispettoso, nota le differenze dei diversi bisogni individuali ed è in grado così di guarire sé stesso e l’altro.
Riferimenti bibliografici
Anepeta, L. (2017). Il dramma del perfezionismo sociale e morale. Nilalienum Edizioni.
Ghezzani, N. (2018). Uscire dal panico. Ansia, fobie, attacchi di panico. Nuove strategie nella gestione e nella cura. FrancoAngeli.
Hillman, J. (2003). Il potere: come usarlo con intelligenza. Biblioteca universale Rizzoli.