Derealizzazione: un dialogo a distanza
di Nicola Ghezzani
Estraniazione e atemporalità
Sono ormai decenni che mi occupo su un piano teorico e clinico di derealizzazione e depersonalizzazione. Come ho già detto altre volte, si tratta di sintomi di estraniazione emotiva, applicati ora al proprio corpo, ora alla realtà circostante. La realtà e il corpo vengono estraniati e percepiti come non più comprensibili, non più parte della “normale” vita quotidiana. La realtà è vista come attraverso una parete liquida che la confonde e la allontana, oppure è sentita come pietrificata e senza vita; il corpo è percepito da una distanza remota, come il corpo di uno sconosciuto o di un morto.
A questo carattere della estraneità voglio ora aggiungere un altro carattere specifico ai due sintomi, quello della atemporalità: lo scorrere del tempo è rallentato fino a non essere più avvertibile. Nella mente della persona che è affetta da derealizzazione, tutto cessa di trasformarsi, apparire nuovo e indurre sorpresa, quindi imperano la noia, la depressione, l’angoscia.
Dunque, in sintesi: nella depersonalizzazione domina «la sensazione che il proprio corpo sia intorpidito oppure privo di vita, la sensazione che certe parti del corpo (come i piedi o le mani) non siano collegati al resto del corpo, la sensazione di essere distaccato dalla propria immagine di sé al punto da vedersi estraneo, e la sensazione di osservarsi a distanza» 1; nella derealizzazione domina la sensazione che la realtà sia un mondo estraneo e che il tempo abbia cessato di scorrere.
Il sentimento di allarme e l’esplosione dell’angoscia
In tali stati psichici alterati si perde il contatto, il collegamento, emotivo, sentimentale ed evolutivo con la realtà in cui si vive e con il proprio corpo. Tutto è strano e repellente, nulla si muove, nulla cambia, tutto è fermo e come stregato. La perdita di contatto con la realtà (molto simile ad una condizione di abbandono in un luogo totalmente sconosciuto o persino non umano) genera allora emozioni di allarme come la paura, il disgusto, l’angoscia, l’orrore.
Come ho già spiegato altre volte, noi siamo in grado di vivere in sintonia con la vita solo se le percezioni non sono meramente cognitive, ma innanzitutto emotive. In senso psicologico, noi siamo “vivi” se ogni nostra percezione (il nostro volto, le nostre mani, così come le persone, le strade, le piazze, le città, gli animali, i paesaggi…) è filtrata e mediata da una preliminare risposta emotiva. Un albero risveglia in noi un ricordo emotivo prima ancora che un ricordo cognitivo; lo riconosciamo per l’emozione che ci suscita. Se questa emozione manca, l’albero è “morto”: lo riconosciamo alla vista, ma per il nostro “cuore” è uno scheletro senza significato, un ammasso caotico, un enigma insondabile.
È ovvio che il mancato riconoscimento di un oggetto del mondo o persino del proprio volto (percepito come qualcosa di oggettivo ed estraneo, che sta “lì”, nel mondo esterno) può indurre emozioni primarie di allarme come nausea, ripulsa, paura, angoscia, orrore.
La funzione psicologica della scissione
Perché ci si arriva? La mia ipotesi è che, quando questi due sintomi si attivano, la mente stia operando una scissione fra il “dentro” e il “fuori”, fra emozioni e sentimenti personali e mondo e corpo percepiti. La scissione è sintetizzabile in questa formula: Io interiore / Mondo (e corpo) esteriore. Perché ciò accade? Qual è la funzione psicologica di questa scissione? La mia spiegazione è quella che segue.
La scissione serve a generare il massimo controllo sugli stati emotivi e a impedire che emozioni e sentimenti intensi e destabilizzanti, soprattutto inconsci, vengano alla coscienza minacciando la stabilità dell’Io. E allo stesso tempo e per lo stesso scopo, fa sì che nessuno stimolo intenso del mondo esterno possa raggiungere le profondità della vita emotiva interna, che ne può essere turbata e re-suscitata.
La derealizzazione costruisce una guaina difensiva intorno all’Io, il quale, “sepolto” nelle sue percezioni alterate, cessa di accogliere stimoli nuovi (esterni o interni) quindi di mutare. Chiunque soffra di derealizzazione sa che, immerso nel sintomo e poi riemerso in preda alla depressione, il suo Io non è cambiato: è più piccolo e spaventato di prima, ma si è ancorato alle certezze pregresse: famiglia, abitudini, luoghi; è più rigido e ripetitivo che mai. Ma ciò è stato possibile perché il mondo esterno è rimasto escluso dalle profondità emotive dell’Io, che è avvolto dalla derealizzazione come da un guscio.
Questa è un’opinione condivisa da altri autori: per esempio da H. Rosenfeld 2, che considera la derealizzazione come una difesa contro impulsi distruttivi e angosce persecutorie relative ai primi rapporti della vita; e di H. R. Blank 3, che considera la depersonalizzazione come una difesa nei confronti dell’ansia primaria originata da rabbia e deprivazioni orali nel rapporto con la madre. Io penso che la derealizzazione non abbia sempre origini così antiche, ma che sia in effetti una difesa da emozioni forti e destabilizzanti; emozioni intense, attivate dal contatto con un “esterno” potente e umiliante, tale da ridurre in una dolorosa dipendenza.
Questa constatazione conferma la mia ipotesi generale sui sintomi: che “servano” a conservare lo status quo e a impedire ogni reazione ed ogni cambiamento. Questa è l’impostazione generale della mia disciplina, la psicoterapia dialettica, condivisa più o meno dall’intero campo delle psicoterapie psicodinamiche. La differenza tra la mia teoria e le impostazioni psicoanalitiche più rigorose consiste nel fatto che per queste la genesi è sempre da rintracciare in conflitti antichi, di natura erotica o aggressiva, collocabili nella relazione primaria con la madre (conflitti “pre-edipici”) o nella triangolazione col padre (conflitti “edipici”); per contro, secondo la psicoterapia dialettica, il conflitto può essere antico e relativo ai rapporti primari, ma altrettanto spesso può essere attuale e di origine sociale, in quanto deriva da un conflitto di interpretazioni valoriali (sociali) circa il rapporto fra sé e il mondo. Quando una persona ansiosa usa la difesa della derealizzazione sta di fatto “sposando” una certa ideologia sociale, spesso tratta dai rapporti primari, ma pur sempre una ideologia: per esempio che un certo tipo di doveri – cui il derealizzato finisce sempre per adeguarsi – sia ineluttabile e che il suo destino sia di sottomettersi. Da qui, da questo sottomettersi a una vita ripetitiva e monotona, l’acuto senso di impersonale automatismo e di staticità e morte che permea la sua visione di sé e della vita.
Riporto ora, con qualche commento, la testimonianza via mail di una mia lettrice, chiara e illuminante.
Buonasera Dottor Ghezzani,
inserendo “derealizzazione e depersonalizzazione” su un motore di ricerca sono venuta a conoscenza del suo sito, dove ho letto i suoi articoli. Ho poi letto i suoi libri sull’ansia 4 5 Sono stati a dir poco illuminanti, oltre che rassicuranti.
Mi permetto di scriverle e di raccontarle la mia esperienza.
Tutto è cominciato un anno e due mesi fa. Uscivo da un periodo strano: io, sempre piena di vita e di voglia di fare, mi chiudo in casa per un mese. Il tutto mi viene spontaneo, non sentivo alcuna costruzione o artificiosità: stavo cercando di recuperare una relazione e il mio fidanzato si lamentava (giustamente) di alcune mie scappatelle, del mio uscire troppo, del mio bere troppo. Quindi, mi viene per così dire naturale cambiare abitudini di vita, uscire di meno, bere di meno, meno rischio di tradimento. Le tre cose erano per me correlate, all’una seguiva l’altra.
Commento
Una sera, invece, esco con gli amici: bevo, mi ubriaco. Il giorno dopo pranzo con i parenti: penso di avere i normali postumi della sbornia, e invece no. Avvertivo una sensazione strana. Il tutto perdurò per una settimana: era come essere “fusa”, intontita, i tipici sintomi di un post-sbronza, insomma, ma in un continuum senza soluzione di continuità. Dopo intere giornate in queste condizioni, ciò che sentivo si aggravò: mi sembrava di non essere presente, io ero lì, ma come se non ci fossi davvero. Sentivo uno strano cerchio alla testa, sentivo male, vedevo tutto sfocato, tutte le distanza mi sembravano svasate, era come se non riuscissi a toccare le cose, un tutto così lontano e remoto, e io stessa, mi sentivo la testa leggera, vuota, non riuscivo a leggere, a studiare, a concentrarmi. Vagavo per le strade senza riuscire a osservare davvero ciò che vedevo.
Commento
Che cosa è accaduto? Che dopo essersi controllata con la sua volontà e consapevolezza, la ragazza è uscita una sera con gli amici e si è di nuovo lasciata andare a comportamenti trasgressivi, quindi a violenti sentimenti di sfida, di rottura e di attacco ai legami. Il giorno dopo, coi parenti, ecco che esplodono i sintomi, che la incarcerano in una guaina di di irrealtà: tutto è così strano e così confuso che non si può più progettare alcuna azione, non è più possibile trasgredire. I sintomi hanno preso sotto sequestro cautelare la sua personalità.
Dato il perdurare di questa sensazioni, comincio a preoccuparmi seriamente e comincio a stare davvero male. Piango in continuazione, mi dispero, perché non trovo una ragione, un senso. Vado dal medico che mi consiglia una visita neurologica urgente. Credo che entrambi, io e il medico, eravamo convinti si trattasse di sintomi meramente fisici, esterni.
All’ospedale ho avuto quello che poi ho capito essere un attacco di panico, il primo. L’improvvisa convinzione, certezza, di impazzire.
In ogni caso, conclusa la visita neurologica il medico mi conferma che di neurologico non c’è proprio nulla e mi fa fare un colloquio con uno psichiatra. Cinque minuti e questo fa la sua diagnosi: disturbo dell’adattamento. Da qui, comincia il mio lungo rapporto con il Centro di salute mentale. Mi prende in cura una brava psichiatra: mi consiglia di riposarmi, di stare tranquilla a casa, di non sforzarmi, anche di non studiare se non riesco a studiare, di non leggere se non riesco a leggere. Intanto Xanax, e altri farmaci di cui non ricordo il nome.
Comincia un periodo ancor peggiore di quello che lo ha preceduto: attacchi di panico, tanti, e pensieri strani, la mente che è un caos. Non riesco a dormire, perché mi sveglio pensando di star perdendo me stessa. La cosa peggiore, a parte l’ansia, è ciò che sento nella mia mente: non riesco a pensare logicamente, o meglio, ho pensieri strani, angosciosi, ricorrenti: come dei circoli viziosi. Un pensiero ne tira un altro e tutto in circolo. Non riuscivo a controllare i miei pensieri, la mia mente. E io odio perdere il controllo, da sempre. Non ero presente a me stessa. E continuavo a svegliarmi piangendo. Pensavo di essermi staccata dalla vita reale: io, un nulla, immobile, mentre il mondo continua a girare.
Commento
Una nota a proposito dell’intervento psichiatrico. Spesso gli psichiatri capiscono poco di questo sintomo, fanno diagnosi approssimative, prescrivono farmaci. La diagnosi di “disturbo dell’adattamento” non significa nulla; per di più, la ragazza ne è rimasta spaventata, tanto più che la prescrizione comportamentale è stata di rimanere chiusa in casa, ratificando la condanna all’autocontrollo e quindi avvalorando la paura di impazzire: dopo l’intervento medico la situazione è peggiorata.
I mesi successivi possono essere riassunti con una parola: depressione. Di male in peggio insomma. La disperazione: sento di non sapere più chi sono, sento di essermi persa. Ciò che mi è successo vuol dire che la mia vita di prima era tutta sbagliata, io sono sbagliata, sono una cattiva persona, faccio schifo. I sensi di colpa. E poi: io chi sono? Non sapevo più nulla. A me piace il teatro, o no? Mi piace fare shopping, o no? Dalle cose più banali, io non ero più certa di nulla. Ho pensieri suicidi, mi sento sola. È febbraio 2012 quando ordinano il ricovero al reparto psichiatrico. Ne parlo con mia madre, piango e le dico che mi faccio schifo, perché penso di farle schifo (una certezza che mi ha accompagnato tutta la vita): lei mi conforta, mi rassicura, e io comincio a star meglio. Non ci vado al reparto psichiatrico. Mi prendono in cura al SERT.
Commento
Emerge con maggior chiarezza l’immagine interna negativa, che sta al cuore di ogni psicopatologia: il terribile senso di colpa rispetto ai suoi comportamenti trasgressivi le ha generato da una lato una immagine interna negativa con le fantasie di suicidio correlate, dall’altra una derealizzazione che, come un rigido filtro, le inibisce l’affiorare dei pensieri autolesionisti. La derealizzazione difendeva la ragazza dall’emergere di questi vissuti auto-accusatori e dalle fantasie suicidarie. Anche in questo caso, lei sa reagire; non si ricovera, ma si fa prendere in cura dal SERT.
Da lì in poi è tutto in discesa: sto meglio, ricomincio a vivere. Ancora alcuni momenti duri, ma sono passeggeri e saltuari: pensieri angosciosi, ansia, a volte, quando esco, ancora torna la sensazione di sentirmi “fuori”, di non esserci, ma tutto passa come è venuto. Ma posso dire che in generale, sto bene. Studio, ho tanti hobby, esco, mi diverto, viaggio.
A settembre 2012 vado a Parigi a fare la ragazza alla pari: ho bisogno di staccare, di ritrovare me stessa, di ripartire da zero in un posto in cui nessuno mi conosce, di vedere come si sviluppa la mia personalità senza i condizionamenti abituali. Sto bene, davvero bene: tre mesi di rinascita. Mi ubriaco, esco sempre, tradisco di nuovo il mio ragazzo, ma sbagliando si impara, comincio a capire dove sbaglio e comincio a comportarmi come penso sia giusto. Torno nella mia città all’inizio di novembre. Sono una persona nuova: ho capito di amare davvero il mio ragazzo, ora non lo tradirei per nulla al mondo, sono allegra, rido sempre, ho un sacco di voglia di fare, parlo tanto, ho meno paura delle persone, sono più sicura di me. Perché ho capito una cosa fondamentale: stai bene, se fai il bene. Tuo e degli altri. Insomma, se fai la cosa giusta, non puoi che star bene. E io sono felice: ho una bella vita, ho risolto il conflitto con mia madre, all’università va bene, sono in salute, ho delle amiche che mi vogliono bene, un fidanzato che mi ama.
Tutto sembra perfetto. Ho risolto tutto… E invece no! Ogni tanto di nuovo mi sento la mente nel caos: dura giusto un paio d’ore, ma è terribile. Di nuovo i pensieri strani. Io lo descriverei come un eccesso di auto-coscienza. Penso che sto pensando, penso che chi pensa non sono io, che i pensieri non sono i miei, che il mio pensiero non è fluido, non scorre, che devo sforzarmi di pensare.
Commento
Perché è tornata?
Penso che ho di nuovo sbagliato qualcosa. Dov’è l’errore questa volta? Chi sono io? Ora di nuovo, mi chiudo in casa, in quei rari moneti di lucidità ho paura di fare qualsiasi cosa: leggere, studiare… Ho paura a uscire di casa. Anche vedere certi film impegnati, tristi o seri mi fa paura: tutto mi tocca troppo nel profondo.
Ripenso a quando ero piccola: scrivevo tutto su dei foglietti: i nomi che volevo dare ai miei figli, i lavori che volevo fare da grande, i libri che avevo letto e quelli che volevo leggere… tutto. Scrivevo tutto perché avevo paura di dimenticarlo. E ogni tanto, ogni giorno, anche più volte al giorno, dovevo andarmeli a rileggere, se no mi veniva l’ansia.
È una cosa che faccio ancora adesso: ho un’agenda in cui scrivo tutto, da “fare la doccia la mattina” a “esame di diritto commerciale”, insomma anche le cose più banali. E mi ripeto le cose mille volte di seguito: doccia, studio, dottore, palestra. Doccia, studio, dottore, palestra. Doccia, studio, dottore, palestra. Una volta uno psicologo ha detto che sono una maniaca del controllo. In realtà sono disordinatissima, la mia stanza è davvero in condizioni pessime, forse è ciò che è dentro di me che cerco di controllare.
Commento
Anche in questo passo le intuizioni sono notevoli: la lettrice ricorda che anche da piccola non poteva mai perdere il controllo, né sul presente né sul futuro, tutto doveva seguire un preciso copione. Nel suo remoto passato è stata una bambina ansiosa, che doveva controllare ogni abbandono alla casualità, ogni possibile novità, programmando per intero la sua vita. Obbediva dunque ad una precisa ideologia.
La mia risposta
Cara X,
lei ha capito molto dell’origine dei suoi disturbi, ma non il fatto centrale, ossia il suo errore di fondo: lei immagina la vitalità e il cambiamento solo come trasgressione, quindi il sintomo la punisce con una sorta di carcerazione preventiva. Ha intuito che la vita trasgressiva genera sensi di colpa e ansia e che la depressione era collegata a questi sensi di colpa. Non ha ancora capito come “funziona” la derealizzazione. Non vede che funziona come un freno a mano tirato, come una garanzia, che la sua mente vuole avere, che lei non sbaglierà di nuovo. La persistenza dell’impulso trasgressivo, della voglia di vivere in uno stato di esaltazione emotiva e di anestesia morale che le consenta di fare tutto ciò che le passa per la testa, è controbilanciata dalla persistenza del sintomo. Quando il mutamento verso la fermezza di intenzioni sarà solido, il sintomo scomparirà.
Se vuole, ho avviato un servizio di consulenza psicologica via Skype. Potremmo così conoscerci meglio e avviare un percorso di maturazione della sua personalità.
Buona giornata.
La risposta della lettrice
Salve Dottore,
sto rileggendo i suoi libri. Mi sono molto d’aiuto, sono scritti in maniera chiara e precisa, comprensibile anche per chi, come me, non è del settore.
Ho compreso i concetti, lo “schema” della crisi, la contrapposizione, la scissione. In effetti continuo a sentirmi piuttosto confusa e in balia di pensieri contrastanti, oltre che sola. Continuo ad avere momenti di derealizzazione e di terribile ansia, che cerco di sconfiggere con lo Xanax.
Ovviamente non è la soluzione. Non dormo, sono spossata e priva di energia e poco lucida.
Sento un forte nervosismo e una profonda rabbia, che a volte esce incontrollata. Per esempio, ieri, ho aggredito verbalmente un membro delle forze dell’ordine: una reazione non solo inaspettata ma del tutto fuori luogo. Di solito di fronte alle autorità sono l’esempio dell’umiltà e della remissività.
Sento di vivere un periodo di transizione, costellato di mille difficoltà. Appena cominciata a mettere in ordine la mia vita, sembra che tutti mi si rivolgano contro. Il mio ragazzo mi lascia, la mia migliore amica dice di non volermi più vedere. Oltre al dolore, immenso, il turbamento di non capirne le ragioni.
Tutti, amici, familiari, mi chiedono di cambiare: mi sono sentita “sbagliata” e “cattiva” per tanto tempo, ora comincio a rivalutarmi, ho tentato di cambiare, tanto è migliorato ma per gli altri non è abbastanza. Ora però sono stanca di tutto questo, lo ritengo profondamente ingiusto. Ho sempre avvertito il peso delle pressioni altrui, delle opinioni altrui, lungo tutta la mia vita. Mi riferisco soprattutto a mia madre. Tuttavia tentavo di fregarmene, facendo la dura, vantandomi delle mie scelte controcorrente.
Ora finalmente comincio a pensare che mi piaccio così, che dovrei fregarmene di ciò che pensano gli altri. È difficile e doloroso.
Una delle cose che ho capito in questo ultimo anno è riconoscere l’importanza che gli altri hanno per me, ma dev’esserci un equilibrio, come in tutte le cose. E questo non l’ho ancora raggiunto. Mi sono sempre vantata di essere una ragazza sveglia e indipendente, di essere cresciuta prima degli altri. In effetti le mie esperienze di vita lo confermano, fin dalla adolescenza. La prima canna, la prima volta, le prime vacanze da sola, la discoteca, le prime sbronze… sempre prima degli altri. Facevo la dura. Per dimostrare cosa? A chi? Tuttavia non riuscivo ad avere un’idea precisa di me stessa, ero in balia delle opinioni altrui. Mi sono creata una maschera, della ragazza libera e libertina, coraggiosa, spavalda. In realtà sono sempre stata una persona profondamente introversa e timida, lo sono tuttora. Ho troppa paura. Io ho problemi di balbuzie. Mio padre se n’è andato che avevo 8 anni, pochi mesi dopo ho cominciato a parlare male. Non so se sia nata prima la timidezza o la balbuzie. Fatto sta che spesso non parlo, per entrambi i motivi. Mi vergogno.
Non so, non capisco più chi sono. Vorrei diventare una ragazza sicura, allegra e solare. Ma forse non si diventa ciò che non si è, tutto sta nel saper ritrovare ciò che in fondo si è sempre stati. E io questo non lo so.
Abito troppo lontano per venire a trovarla a Roma, quindi ho deciso di accettare la sua proposta di conoscerci su Skype. I suoi libri sono stati illuminanti e inoltre è il primo che mi abbia davvero capito.
La saluto con speranza e con affetto,
X
Conclusione
Da quest’ultima mail è evidente come la lettrice sia ancora invischiata in un desiderio di anestesia morale e di trasgressione che non coincide con la sua reale natura e che il percorso di guarigione sarà lungo. Da quando ha avviato il rapporto di consulenza via Skype con me è molto migliorata. A tratti, le sembra di aver riconquistato la felicità.
N.B.
Nel presente articolo, ogni riferimento che possa rendere la lettrice in qualunque modo riconoscibile è stato completamente modificato.
Bibliografia
- Glen Gabbard, Psichiatria psicodinamica, Raffaello Cortina, Milano, 1995.
- Herbert Rosenfeld, Stati psicotici: un approccio psicoanalitico, Armando, Roma, 1990.
- H. Robert Blank, Depression, hypomania and depersonalization, The psychoanalytic quarterly, 23, 1954, n. 1, pag. 20—37.
- Nicola Ghezzani, Uscire dal panico, Franco Angeli, Milano, 2000.
- Nicola Ghezzani, La logica dell’ansia, Franco Angeli, Milano, 2008.
- Nicola Ghezzani, La vita è un sogno, Franco Angeli, Milano, 2018.
Per contattare l’autore scrivigli una mail nicola.ghezzani@email.it
o un messaggio su WhatsApp 333 999 4797
- pag. 297.
- Herbert Rosenfeld, Stati psicotici: un approccio psicoanalitico, Armando Roma, 1990.
- H.Robert Blank, Depression, hypomania and depersonalization, The psychoanalytic quarterly, 23, 1954, n. 1, pag. 20—37.
- Nicola Ghezzani, Uscire dal panico, Franco Angeli, Milano, 2000.
- Nicola Ghezzani, La logica dell’ansia, Franco Angeli, Milano, 2008.