Il Disturbo da Derealizzazione e Depersonalizzazione
di Nicola Ghezzani
Un’esperienza personale
Molti anni fa, da ragazzo, ho sofferto di una sintomatologia misteriosa, che mi sconvolse la vita. Avevo diciotto anni e il disturbo perdurò fino ai ventidue anni circa. Dapprima furono sensazioni piacevoli: la scena di fronte a me, sia in casa che fuori, presentava colori fosforescenti, soprattutto la sera. Il tempo rallentava e mi pareva di essere immerso in una sorta di beatitudine nella quale l’Io si dissolvesse come un granello di sale nell’acqua. Il rapporto dell’Io con se stesso e con gli oggetti del mondo era affatto diverso dal solito. Tutto era più vago e confuso, eppure una sorta di stupefatta e serenità pervadeva ogni percezione. Tenni questa misteriosa sensazione per me, senza raccontarla a nessuno, come un segreto, e la chiamai “estasi”. Ne ero affascinato; più volte cercai di afferrala nei miei dipinti e nelle mie poesie.
Poi però le cose peggiorarono.
Cominciai a vedere il paesaggio urbano come se fosse una quinta di teatro, una scena dipinta, completamente artificiale. Mi pareva disegnato su una superficie piatta e inconsistente. Io vi camminavo senza riuscire a sentire la sua realtà, il suo spessore, come fossi sospeso a mia volta in un sentimento di astratta irrealtà. Infine ebbi la sensazione – in verità piuttosto terrificante – che le persone intorno a me fossero artificiali anch’esse, false, svuotate di consistenza, a tratti persino morte. Più volte mi sorpresi a osservarmi dall’esterno, a saggiare la densità della mia voce, come fosse un suono o un rumore estraneo, a pronunciare le parole e le frasi come se si componessero da sole e io potessi solo ascoltarle. Un paio di volte ebbi una visione autoptica, cioè vidi il mio corpo dall’esterno mentre il mio soggetto visivo, il mio sguardo, era lontano da esso; altre volte lo percepii diffuso nell’ambiente circostante, sicché potevo osservare la scena da più angolazioni. Nel complesso, ciò che siamo soliti chiamare “Io” non era più in relazione immediata con la realtà, ma vi assisteva come se fosse divenuto un semplice spettatore, incapace di alcuna interazione con essa. La realtà del mondo e quella corporea si svolgevano come le scene di un teatro assurdo, senza significato, estraneo a qualunque azione personale, che risultava anch’essa assurda e del tutto inibita. L’”Io” era costretto in una sorta di confusa impotenza, sia cognitiva che pratica.
Mi rendevo conto che le sensazioni che sperimentavo non potevano più essere classificate semplicemente come “strane”. Dovevo ammettere che esse erano “alterate” e, dato il grado di sofferenza che m’inducevano, dovevo ormai classificarle come “patologiche”: non potevo in alcun modo controllare la loro comparsa, né la situazione generale della mente.
A quel punto mi resi conto che stavo male e che non avrei dovuto più nascondere la mia condizione, né cercare di gestirla da solo come avevo fatto fino a quel momento, impaurito com’ero di espormi nella mia stranezza e nella mia vulnerabilità. Su mia richiesta, mio padre mi procurò un paio di nominativi di specialisti. Feci due incontri con due psichiatri della mia città, una giovane alternativa e un maturo psichiatra classico, i quali mi ascoltarono, fecero finta di capirmi, ma in realtà non seppero letteralmente che pesci pigliare. Non andò meglio a Pisa, dove mi ero trasferito per studiare Medicina: l’anziana psicoterapeuta della Gestalt che interpellai mi disse che la terapia sarebbe stata lunga e costosa e palesemente, essendo uno studente fuori sede, non avrei potuto permettermela. Anche in questo caso ebbi però la sensazione di averla messa in imbarazzo, che la risposta aveva lo scopo di eludere la mia richiesta perché non avrebbe saputo come prendermi. Solo, due anni dopo, trasferitomi a Roma per studiare Psicologia, incontrai la persona giusta: un giovane psicoterapeuta psicodinamico di eccezionale preparazione clinica e di grande cultura. Nel giro di un paio d’anni di psicoterapia intensiva il disturbo si risolse ed io ne fui talmente sollevato che decisi di dedicare la vita alla sua comprensione e alla sua cura. Divenni prima uno psicologo, poi uno psicoterapeuta e portai avanti il compito che mi ero prefissato.
Su questa complessa storia giovanile ho scritto due libri, uno descrittivo, Ricordati di rinascere, l’altro clinico e tecnico, La vita è un sogno, ai quali rimando.
Chi ha vissuto un’esperienza come la mia e n’è uscito porta per sempre con sé la traccia indelebile di un percorso di crisi e di rinascita. La sofferenza della mente è spietata, perché ti segue ovunque e non ti dà requie. Superarla porta con sé una gioia indescrivibile. L’insegnamento che fornisce è che ogni catastrofe, per quanto grave possa apparire, ha sempre una via d’uscita.
Due strane esperienze
Con il termine derealizzazione si intende un’esperienza percettiva di irrealtà che riguarda il mondo, le persone, gli animali e gli oggetti che lo abitano. La diagnosi di derealizzazione identifica la completa e anormale sensazione di irrealtà, di distacco o estraneità nei confronti del mondo, sia esso rappresentato da persone, esseri viventi e oggetti inanimati e l’intero ambiente circostante; una sensazione che rende vane le cognizioni e le azioni dell’Io. La persona può sentirsi come se si trovasse nella nebbia, o come se ci fosse un velo o una parete di vetro tra sé e il mondo. In questo stato si ha la sensazione di essere separati dal mondo al punto che questo può apparire distorto e irreale, non riconoscibile: gli oggetti possono risultare di forme e dimensioni diverse; cambia la percezione del tempo, il cui scorrere viene percepito come troppo veloce o troppo lento; i suoni possono risultare più forti o più deboli del previsto. Emergono delle alterazioni percettive come se non si avesse familiarità con la realtà circostante, che può apparire piatta, senza colore, senza vita.
Per depersonalizzazione s’intende invece un’esperienza soggettiva di irrealtà, di distacco o estraneità sia dal proprio corpo che dalla propria identità, dai propri pensieri, sensazioni, emozioni, sentimenti. Essa induce sensazioni disturbanti che includono un senso di trasparenza allo sguardo altrui o di non esistenza, o di sentirsi fuori dal proprio corpo, come si fosse un osservatore esterno di se stesso. Come la derealizzazione, anche la depersonalizzazione è associata a una diminuzione o alla perdita di reattività, simile a una sorta di intorpidimento fisico ed emotivo. Questa condizione di ottundimento può andare da forme relativamente sopportabili, che i pazienti descrivono come sentirsi distanti dalle cose o poco coinvolti emotivamente, fino a forme estreme di totale annichilimento e di morte interiore. La persona riferisce di provare una strana sensazione di disconnessione dal proprio corpo, un qualcosa di mai provato prima: si sente come se stesse vivendo un’esperienza extracorporea, di totale distacco, come se fosse in un sogno o si guardasse all’interno di un film. Può sentirsi distaccata dal proprio essere («Non sono nessuno»), così come da aspetti del proprio Sé, quali sentimenti («So di avere emozioni ma non le sento»), pensieri («I miei pensieri non sembrano miei»), corpo o parti del corpo («Mi guardo allo specchio e non mi riconosco»). In alcuni casi può percepirsi dall’esterno, come se Io e corpo fosse due cose nettamente distinte («Mi stavo osservando dall’alto, a due metri di distanza: mi vedevo fare quelle azioni, dire quelle cose, ma intanto ero fuori di me e mi osservavo come un qualunque oggetto»).
Una classificazione diagnostica
Nel DSM V i sintomi di derealizzazione e depersonalizzazione sono raccolti sotto la sigla DDD, Disturbo da Derealizzazione e Depersonalizzazione. La definizione mi infastidisce, perché l’intero DSM è costruito sull’idea che i “disturbi” siano malattie a base genetica, da curare con psicofarmaci per tutta la vita; mentre io penso che siano variazioni psicosomatiche dell’esistenza umana, modificabili con l’interazione dialogica e solo raramente, quando molto severi, gestibili anche con psicofarmaci. Non pochi psichiatri dell’APA (American Psychiatric Association), compresi alcuni estensori dello stesso DSM IV, hanno preso le distanze fino a dissociarsene. Due curatori delle edizioni precedenti, Robert Spitzer e Allen Frances, una volta in pensione, hanno scritto nel luglio 2009 una pesante lettera di protesta alla APA, denunciandola di pianificare aggiornamenti non confermati da corrette e replicabili ricerche scientifiche. Allen Frances, nell’editoriale successivo su Psychiatric Time, ha aggiunto che molti degli autori-redattori della nuova edizione erano semplici ricercatori universitari completamente cut off (tagliati fuori) dalla clinica e quindi da qualsiasi rapporto con i pazienti, che si interessavano solo di elaborazioni statistiche dei dati epidemiologici.
Occorrerebbero dunque una nuova forma di classificazione e nuove definizioni. Con un amico studioso di Fisica abbiamo elaborato un grafo, che un giorno forse illustrerò. Per ora, procederei in modo empirico. A titolo comunicativo potrei accettare l’etichetta del DSM V, oppure chiamare il disturbo SAP, cioè “Sindrome da Alterazione percettiva”, o anche come faccio nel mio libro La vita è un sogno (2018) DPC, cioè “Disturbo pseudocognitivo”. Non mi impiglierei troppo – almeno per ora – sulla questione della definizione. Fondamentale è piuttosto la distinzione fra disturbo genetico o biologico primario e disturbo funzionale. Dal mio punto di vista, le sindromi psicopatologiche sono disturbi funzionali, sono disturbi del funzionamento psichico governate dal sistema nervoso centrale, sono cioè il frutto di un’azione della mente inconscia sulla coscienza.
E dunque, proviamo a chiederci qual è la genesi di questo disturbo? Le sue caratteristiche sono piuttosto sfuggenti: il DDD è un disturbo ubiquo, che può presentarsi come esito di numerosi disturbi d’ansia allorché questi si aggravano e attivano una difesa di tipo dissociativo. È frequente che accompagni l’ansia generalizzata, il disturbo da attacchi di panico, la fobia sociale, il disturbo ossessivo compulsivo e la depressione. Simile a una grande ombra, la sua presenza in tanti disturbi correlati può indurre il tecnico a commettere degli errori diagnostici.
Il primo errore è di sottovalutarlo come sindrome a se stante, trattandolo come un semplice sintomo che accompagna disturbi maggiori, come la depressione o il disturbo ossessivo compulsivo. Per quanto spesso affianchi altri disturbi, il Disturbo da Derealizzazione e Depersonalizzazione ha un suo carattere specifico, tanto che può strutturarsi come disturbo prevalente o come disturbo unico e dominante.
Il secondo errore che il tecnico può commettere consiste nel fuorviarsi riguardo alla ricerca delle cause. Per esempio, è interpretazione corrente (e sbagliata) ricondurlo interamente nel campo del Disturbo da Stress Post Traumatico, quindi all’esperienza di traumi gravi e tanto precoci da non essere ricordati. Si tratta di un errore grossolano che può essere gravido di conseguenze negative: è vero che il DDD può comparire come effetto di traumi più o meno gravi; ma altrettanto spesso si manifesta in personalità che non hanno subito alcun trauma. Sarebbe quindi vano e in verità anche pericoloso cercarvelo in modo ossessivo. La ricerca ostinata del trauma potrebbe far affiorare pseudo-ricordi costruiti ad hoc nella speranza di dare soddisfazione al terapeuta o di trovare una soluzione per se stessi. Ecco allora che il paziente, invitato a ricordare il supposto trauma, comincia a dubitare di se stesso e a indagare la vaghezza di certi remoti ricordi fino a costruirsi la falsa memoria di abusi e violenze subite nella prima infanzia. Qualcosa di simile accadeva verso la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento con i casi di isteria: invitate a ricordare, le persone (perlopiù donne) evocavano scene di abusi sessuali familiari spesso inventati, in stato semi-onirico, di sana pianta. È evidente come questo tipo di ricerca possa da un lato fuorviare l’identificazione delle cause del disturbo, quindi la stessa terapia, dall’altro creare al paziente quel danno retrospettivo che ho chiamato trauma autogeno, cioè un’interpretazione soggettiva tanto vittimistica da risultare più dannosa di un evento reale.
Il criterio principale per decidere che una persona è affetta da DDD (Disturbo da Derealizzazione e Depersonalizzazione) consiste nella constatazione di episodi persistenti o ricorrenti in cui questa persona sperimenta un senso di irrealtà e un profondo distacco da sé e dal mondo circostante, al punto da percepirsi come un osservatore esterno, un’ombra, un automa, e da sentire di essere immerso in una realtà estranea e artificiale o in un sogno.
I sintomi sono di solito molto invalidanti. Episodi persistenti e ricorrenti di derealizzazione e depersonalizzazione possono causare un grave sentimento di impotenza, fino spingere la persona che ne soffre alla prostrazione e all’apatia depressiva, rendendo arduo il normale funzionamento quotidiano da soli, nelle relazioni affettive e sociali, a scuola e al lavoro e in un qualunque contesto sociale.
Nella depersonalizzazione, il depersonalizzato osserva il suo stesso corpo come un oggetto estraneo e paradossale, che talvolta gli ispira orrore; e osserva i suoi pensieri come eventi oggettivi che si svolgono al di fuori del suo Io osservante, come fosse coinvolto nella proiezione di un film che lo avvolge e lo circonda. Pensieri e corpo gli appaiono tanto estranei e autonomi da lui da non poterli controllare né poterli indirizzare ad una qualunque azione programmata e razionale. La depersonalizzazione implica che il proprio corpo, le proprie gambe o le braccia appaiano distorti, ingranditi o rimpiccioliti, che si dilatino mentre vengono adoperati o contemplati e che sembrano oggetti giustapposti, come appiccicati, affatto estranei al sentimento che l’Io ha di se stesso, tanto da non riuscire a capire cosa farne e come dirigerne l’uso. Allo stesso tempo, può accadere che il depersonalizzato possa sentirsi come se si stesse osservando dall’alto o di lato, stupendosi di essere sia il soggetto osservante che l’oggetto osservato, o di sentirsi come se stesse fluttuando in aria, a distanza dalla scena e persino da stesso. Tutto ciò lo rende estremamente insicuro e inabile, oltre che spaventato, generando uno stato di inettitudine pragmatica pervasivo e destabilizzante.
I sensi sia del depersonalizzato che del derealizzato sono intorpiditi. Il soggetto con DDD ha perso il contatto non solo con la realtà ma anche con gli organi che ne mediano la percezione: la vista, l’udito, il tatto, il gusto, l’olfatto, l’equilibrio, il senso di orientamento, il senso di sé: ogni strumento di cognizione e di azione è alterato.
La relazione interpersonale subisce distorsioni non meno perturbanti: innanzitutto si avverte uno scollegamento dagli altri esseri umani, persino dalle persone più importanti: familiari, amici, figli ecc. Nell’interazione, l’altro può apparire remoto e lontano e le sue parole possono sembrare inconsistenti e insensate; oppure l’altro può apparire al contrario grande, dilatato, deforme e le sue parole sono allora suoni assordanti, ma egualmente confusi e privi di significato.
La fenomenologia alterata può riguardare anche il tempo: allora gli eventi sembrano accadere con una incredibile lentezza, come l’avvicendarsi di oggetti che cadono o si muovono nel fondo del mare; oppure risultare accelerati, tanto da ubriacare e sfuggire alla riflessione.
Come accade in ogni esperienza psicopatologica in fase acuta, l’Io è ridotto all’inettitudine, non è in grado di pensare, capire e agire in modo adeguato alle circostanze; di conseguenza tende ad affidarsi alle conoscenze pregresse, si rifugia nelle relazioni fondamentali, regredisce a uno stato di mera sopravvivenza, spesso cade in una depressione esistenziale che gli sottrae ogni entusiasmo, desiderio, progetto. I sintomi sembrano voler privare il soggetto di ogni potere di autodeterminazione.
In questa tempesta di illusioni percettive, vi è tuttavia qualcosa di buono, che occorre notare con precisione. La sensazione di distacco associata a depersonalizzazione e derealizzazione non è totale: è simile allo svolgersi di un film su uno schermo. Le percezioni alterate coinvolgono l’Io osservante solo dall’esterno, senza annullare la sua esistenza: accadono ma l’Io sente e capisce che sono appunto alterate, ossia illusorie. In sostanza, e in ogni momento, la persona resta consapevole sia del proprio normale e ordinario flusso di coscienza, che delle alterazioni percettive e ed emotive che si stanno verificando fuori e dentro di sé.
Questa coscienza integra, sia pure unita allo spettacolo della catastrofe mentale, è un tratto differenziale fondamentale per formulare una diagnosi corretta. A differenza dei disturbi psicotici, infatti, i pazienti con DDD sono consapevoli che la loro percezione è alterata e che le loro esperienze di distacco, per quanto intense e pervasive, non sono reali. Nondimeno, essendo queste sensazioni tanto acute da generare confusione, i pazienti sono spesso soggetti al terrore di impazzire.
In realtà, i sintomi di depersonalizzazione/derealizzazione possono fungere da innesco a un attacco di panico in cui la persona interpreta i sintomi di irrealtà e di distacco come segno di una minaccia alla propria integrità mentale; ed esitare in depressioni ipocondriache e ansiose molto intense, che coinvolgono il significato della vita, attivando talvolta la fantasia di suicidio. Ma non esitano praticamente mai in una psicosi.
La funzione del sintomo
I sintomi del disturbo da derealizzazione e depersonalizzazione appaiono così strani e perturbanti perché colpiscono la percezione alla sua radice.
Nei disturbi psicosomatici ordinari, spesso accompagnati da angoscia ipocondriaca, la sintomatologia focalizza e colpisce la funzionalità degli organi: il cuore accelera o altera le palpitazioni, il respiro rantola, si avvertono dolori incongrui alla muscolatura, alle articolazioni e alle ossa, crampi colpiscono gli intestini e lo stomaco, si hanno vertigini e talvolta svenimenti ecc. Tutto ciò di solito viene interpretato dal soggetto ansioso come segno di una malattia grave o di una morte imminente.
Nel disturbo da depersonalizzazione e derealizzazione la percezione alterata riguarda non tanto gli organi quanto soprattutto le stesse attività del percepire e del pensare: la coscienza osserva l’attività visiva e per esempio appaiono barbigli e luccichii, oppure i colori sono sparati e fosforescenti o al contrario plumbei e amorfi; oppure l’oggetto percepito appare stranamente lontano, come visto da un cannocchiale rovesciato, o troppo vicino… Lo stesso accade con l’udito: la coscienza soggettiva, allora, ascolta l’udito, ascolta il suo stesso udire, che si riempie di fruscii e acufeni, presenti sempre ma in questo caso percepiti in una modalità focalizzata e ossessiva. Talvolta suoni incongrui possono essere interpretati come voci, come accade nei fenomeni ipnagogici. Altre volte il soggetto contempla l’azione del pensare come una cosa che accade alla mente ma non riguardi in alcun modo il suo Io, che continua attonito a percepire il pensiero come un’attività a lui estranea. Egli viene allora invaso dall’angoscia di impazzire o dalla rivelazione angosciosa (anch’essa di natura fobica) di essere già pazzo, o addirittura morto, e di non essersene mai accorto.
Come ho già detto, tutto questo non ha nulla a che fare con la psicosi. Sembra piuttosto avere a che fare con la riattivazione di processi mentali impliciti nelle età della vita nelle quali si forma la percezione della realtà e del proprio collocamento in essa: l’infanzia e l’adolescenza. Di fatto, a livello neuronale, questi periodi sono estremamente delicati. In quegli anni si forma il ragionamento ipotetico deduttivo, si creano le basi per le capacità di decentramento dell’Io, si attiva la capacità di oggettivare la realtà e di riflettere sul suo significato. La corteccia prefrontale – che collega la cognizione con l’emozione – ha un impetuoso sviluppo, nel frattempo prosegue la “potatura sinaptica”, cioè la caduta delle connessioni neuronali inutili. Si è nel periodo del dubbio e dell’ipotesi, dei miti sociali e del mito personale, in ogni accadimento della vita pubblica e privata si ha la sensazione di essere osservati da un pubblico di spettatori.
In questi periodi dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche in età adulte allorquando si attraversano crisi di passaggio, il cervello è soggetto a un bombardamento e ad una rivoluzione continua degli schemi emotivi e cognitivi. L’Io è alla ricerca della propria identità e ne scopre la precarietà. Qualunque azione emotiva e mentale percepita come pericolosa, cioè che entri in conflitto con persone amate o col senso comune, solleva vergogna e senso di colpa, conflitti di significato e dubbi sul senso di sé e di ogni cosa. Nella ripetizione di cicli di domande senza risposta, una depressione esistenziale può insediarsi saldamente nell’Io.
La mente valuta costantemente il rischio di questa azione critica, quindi attiva sistemi multifattoriali in funzione protettiva. Sia la base biologica che quella psicologica attivano sistemi intesi a bloccare l’azione destabilizzatrice, se questa supera i limiti di tolleranza del sistema psicobiologico. Tipico in questo senso l’esordio della sintomatologia a seguito dell’assunzione di droghe o dell’avviarsi di conflitti intra-familiari o di comportamenti trasgressivi. In circostanze di questo tipo, la mente avverte la necessità di inibire sé stessa: ossia, per meglio dire, una parte della mente argina e blocca l’altra parte, percepita come minacciosa. Almeno quattro istanze del sistema psichico si affrontano e danno luogo alla genesi di un sintomo: due istanze collettive e due personali. Il Super-io, ossia il sistema sociale interiorizzato, e l’Altro, cioè il sistema psicobiologico generale (il cui rapporto ho descritto nel libro La specie malata) costituiscono un soggetto inconscio alternante dotato di facoltà semantiche; essi segnalano all’Io la deviazione provocata dall’Io antitetico, che è la parte reattiva trasgressiva. Insidiato da impulsi devianti rispetto alla norma interiore, l’Io è altresì oggetto di segnali di allarme da parte dell’Altro, del sistema psicobiologico inconscio, che attiva stati psicosomatici di disagio ed emozioni sanzionatorie. A questo punto, l’amigdala, che è l’organo del cervello rettiliano più profondo del nostro cervello, ordina un minor utilizzo della dopamina per diminuire o alterare la percezione oggettuale, psicologica ed emozionale della realtà proprio in quanto essa è troppo dolorosa, umiliante, spaventosa, tale da attivare angoscia, rabbia, conflitto. Il sintomo, dunque, inibisce l’emersione di cariche emotive conflittuali.
In buona sostanza, il soggetto derealizzato avverte un’emozione di rifiuto (per esempio nei confronti di una persona o del proprio nucleo familiare o del mondo circostante) ma non può dare seguito ad essa. Anziché seguire il processo emotivo, che implica il rifiutare attivamente quell’oggetto della realtà, assumendosi la responsabilità morale del rifiuto, il soggetto resta nel guado, resta come a metà. Osserva l’estraniazione dell’oggetto, il suo divenire vuoto, atono, inerte, senza significato, e resta affascinato da quella percezione. La sua coscienza si focalizza ossessivamente sull’estraniazione in se stessa, senza ammettere che quella estraniazione è un processo emotivo e ideativo inteso a rifiutare una particolare entità del mondo.
Immaginiamo un bambino piccolo alle prese con una madre ansiosa e oppressiva, che lo incalza e lo turba. Egli, anziché guardarla dritto e strillare contro di lei, può distogliere lo sguardo, può agitare la testa per non focalizzare la vista sulla donna, può osservarla di lato e di traverso, può cioè dis-percepire la madre. Può poi osservarla e vederla confusa o spaventosa, alienandosi ancora di più da lei e soprattutto dal suo stesso originario impulso di rabbia. Immaginiamo ora un ragazzo alle prese con il suo gruppo di riferimento in un momento difficile, allorché si sente a disagio per un comportamento di un leader o del gruppo nel suo insieme. Avverte il suo disagio critico ma anziché esserne cosciente comincia a sentirsi osservato, a vedersi dall’esterno come un personaggio che prende parte ad una recita. Quello stesso ragazzo la prossima volta che uscirà di casa potrebbe osservarsi allo specchio in modo compulsivo e portare con sé, nella sua mente, l’immagine oggettiva di sé percepita in casa e proposta come un Io fittizio agli altri. Lo scopo è palesemente di schermare le emozioni con una “posa” artificiale. In entrambi i casi (bambino e ragazzo), il soggetto sposta la sua attenzione ed evita di prendere atto di un’emozione conflittuale.
Allora, il rifiuto nei confronti di una madre troppo ansiosa e oppressiva non viene percepito come processo emotivo, che ha un inizio e una fine e che implica l’assunzione di responsabilità di averlo avviato, ma resto pietrificato nella percezione di una figura materna estranea, di una forma umana incomprensibile, priva di significato, di una entità che simula una forma umana ma che potrebbe essere un artefatto, un morto, una materia oscura. Allo stesso modo, il pensiero critico nei confronti ti di un gruppo da cui si dipende viene percepito, ma ci si focalizza sulla propria immagine, sul proprio Io attoriale, sull’effetto che si fa sugli altri, allo scopo di stornare l’emergere dell’emozione conflittuale.
Il processo di rifiuto non viene integrato nella coscienza perché gravato da angosce di colpa e bloccato nella sua progressione logica e temporale. Quindi il sintomo protegge il soggetto dall’angoscia di colpa e il sistema relazionale da un conflitto percepito come drammatico. Allo stesso tempo, inibisce i processi di separazione e individuazione, che essendo stati drammatizzati, sono stati altresì paralizzati, congelati nel vissuto sintomatico.
Si avvia allora una sorta di ibernazione dell’identità, che viene bloccata nel suo sviluppo e inibita per un tempo indefinito.
La psicoterapia
Mentre alcuni episodi di depersonalizzazione potrebbero durare soltanto un breve periodo di tempo, alcune persone con disturbo di depersonalizzazione hanno questi episodi per giorni, settimane, mesi. Talvolta il disturbo può cronicizzare e durare lunghissimi anni. Trattandosi di un disturbo che offre pochissimo appiglio a terapie farmacologiche e altrettanto poco a psicoterapie non specialistiche, con terapeuti che lo trattano come un qualunque altro disturbo o persino lo minimizzano, è necessario prenderlo sul serio sin dalle prime manifestazioni e rivolgersi a terapeuti che dimostrino di conoscerlo a fondo.
Somer, Amos-Williams, Stein, analizzando tutti i trial controllati e randomizzati di farmacoterapia e psicoterapia per il trattamento del Disturbo di Depersonalizzazione-Derealizzazione, hanno dimostrato la scarsa efficacia della terapia farmacologica. Dal punto di vista farmacologico, la maggior parte dei farmaci prescritti a pazienti con DDD è costituita da antidepressivi e ansiolitici e sono somministrate principalmente allo scopo di alleviare i sintomi d’ansia e dell’umore in comorbidità, ma non sembrano in grado di trattare la patologia dissociativa. Ad oggi, infatti, nonostante che la letteratura includa alcuni trial sulla somministrazione di clomipramina, inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), e la lamotrigina, nessun trattamento farmacologico è in grado di ridurre di per sé la dissociazione.
Il rischio della cronicizzazione è dunque alto e benché non si tratti di un disturbo psicotico, i suoi effetti sono molto invalidanti. Esso rende difficile la concentrazione, quindi lo studio e il lavoro, rende arduo capire le relazioni sociali e umane in genere, infine arriva a corrodere il senso di sé e della vita fino ad esiti di depressione esistenziale che possono rendere il soggetto del tutto atono e inerte rispetto a mete e obiettivi o anche al semplice ed elementare godimento della vita.
La psicoterapia dialettica, che io pratico da quasi quarant’anni anni, presenta un piano terapeutico articolato. Innanzitutto si preoccupa di eliminare le ansie di tipo ipocondriaco, incentrate sull’idea che il disturbo posso riflettere di una patologia psicotica o neurologica.
I sintomi si sviluppano su due diversi livelli. Al primo livello, come abbiamo detto, essi consistono in sensazioni di irrealtà, intense e spesso drammatiche, l’una relativa alla percezione del mondo, l’altra relativa alla percezione del proprio Io mentale e corporeo. Le due esperienze nascono da una matrice comune: il rapporto che l’Io ha con se stesso e col mondo. La percezione è alterata e non appare più possibile ricondurla al senso comune. Questi sono i sintomi di base, di primo livello.
Purtroppo, il più delle volte a questi primi sintomi si associa una ideazione ansiogena di secondo livello. La percezione derealizzata appare così strana, così fuori dal senso comune, così priva di ogni familiarità che quasi all’istante si ha una drammatica reazione d’ansia, e questa avvia il processo sintomatico secondario. Questo processo secondario è di natura ipocondriaca: il soggetto teme di star vivendo l’episodio fatale che sottraendogli il controllo della mente lo porterà alla follia. Precipita allora nel terrore di impazzire, le percezioni si cristallizzano e spesso ha una lunga, interminabile crisi di angoscia, oppure un attacco di panico. Se questa angoscia non viene ridotta, è facile che il derealizzato precipiti nella fobia di impazzire o di essere già pazzo, cui può far seguito uno stato depressivo costante, che col tempo può diventare grave. L’idea di essere un folle, un malato neurologico grave o un comatoso immerso in un sogno, è solo un’interpretazione secondaria del soggetto, che nulla ha a che fare col disturbo primario.
Questo processo ansioso secondario si innesca solo in quanto il soggetto è terrorizzato da una realtà psichica che non conosce e non sa classificare. Ciò si dimostra a contrario: infatti, qualora si riesca a placare l’ansia secondaria (con mezzi naturali o con uno psicofarmaco), il terrore scompare e resta solo la percezione di base, l’alienazione da se stessi o dal mondo, con un velo di assenza che copre e pervade ogni cosa.
Dunque, la prima cosa da fare in psicoterapia è riportare il paziente dalla fase dell’angoscia secondaria, particolarmente tormentosa, a quella iniziale, primaria, nella quale il sintomo è drammatico e severo, ma di per se stesso non tale da sconfinare nel panico, nella fobia ipocondriaca o nella depressione. Se il paziente si rende conto di questo, se riesce a de-oggettivare ciò che arbitrariamente gli appare oggettivo (danno cerebrale o follia presunti), allora è possibile avviare la fase psicoterapeutica, che consiste nel renderlo consapevole dei suoi conflitti inconsci.
Il ricordo dei primi episodi sintomatici può essere illuminante: essi contengono la struttura del sintomo assieme a quella dell’intera personalità del paziente. Poiché il sintomo è una formazione reattiva finalizzata a placare il conflitto invalidando le funzioni dell’Io e le sue emozioni consce e inconsce, occorrerà trasferire le emozioni inconsce a livello cosciente e renderle intelligibili e gestibili. Questo processo è lungo e spesso interferito da pesanti rimozioni. Il soggetto oppone un velo di misconoscimento, non riesce a ricordare traumi e conflitti, è confuso riguardo ai tempi e ai modi, nondimeno questo processo di ricordo e di ricollocazione delle memorie e delle emozioni perturbanti nel campo della coscienza è fondamentale. L’Io potrà ricordare e gestire la violenza emotiva senza soccombere e quindi senza dover cedere all’autoregolazione inconscia del sintomo.
Proviamo a dirlo in altri termini. Immaginiamo delle lezioni di guida effettuate su un auto con due posti di comando, quello dell’allievo e quello dell’istruttore. Come sappiamo, al suo posto, accanto all’allievo, l’istruttore dispone di comandi in grado di intervenire su quelli dell’altro modulandoli o bloccandoli. Se durante le lezioni l’allievo si mostra in grado di guidare l’auto con competenza, l’istruttore, ossia il guidatore di controllo, non sarà mai costretto a intervenire. Ma se, invece, l’allievo commette sbagli e rischia di uscire fuori strada o di tamponare l’auto che li precede o magari di investire un passante, l’istruttore dovrà prontamente controllarlo e sostituirsi di volta in volta a lui. Ora facciamo un altro piccolo sforzo di immaginazione. Supponiamo che l’auto disponga di servomeccanismi, una sorta di pilota automatico, che l’istruttore conosce ma non può controllare e di cui l’allievo non sa nulla, servomeccanismi che intervengono, in caso di errore, modulando di colpo l’andatura della macchina. Capita che l’allievo faccia sbagli così grossolani che il servomeccanismo intervenga più volte rallentando o bloccando il motore con grande spavento del conducente. A questo punto, credo che la metafora sia piuttosto trasparente: il guidatore apprendista è il paziente, l’istruttore è lo psicoterapeuta, il servomeccanismo automatico è l’inconscio psicobiologico, quindi i sintomi. Nel contesto della metafora, lo psicoterapeuta dialettico ha la delicata funzione dell’istruttore di prevenire l’allievo perché il servomeccanismo non si attivi mai. Il suo compito è di capire in quali circostanze il servomeccanismo intervenga e magari quale sia la sua meccanica e chi lo ha progettato, ossia quale sia la genesi e la funzione dei sintomi in quel particolare paziente. Quindi il suo compito sarà di sostituirsi ai sintomi, di mostrare che essi assolvono alla funzione impersonale di prevenire drammatici errori emotivi e valoriali; quindi di trasmettere al paziente ciò che ha capito di lui, e infine di cedergli gradualmente il pannello di controllo per la gestione della sua mente e della sua esistenza.
Acquisiti questi strumenti, il paziente è libero dai sintomi. Egli ha capito quali erano i traumi e i conflitti sepolti nella sua memoria, conscia e inconscia. Ha sperimentato le violente emozioni che ne erano sorte, tenute sotto controllo o punite dai sintomi, e le ha elaborate e padroneggiate. Infine ha organizzato un Io più ampio, rispettoso del suo passato, capace di gestire la vita emotiva, aperto a nuove esperienze di vita, un Io sufficientemente integro e sano.
Bibliografia dell’autore
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