Derealizzazione e depersonalizzazione: due esperienze psichiche misconosciute
Intervista a Nicola Ghezzani
di Daniela Cavallini
Carissimi Amici, carissime Amiche, è nuovamente con noi il Dott. Nicola Ghezzani, noto Psicoterapeuta e Scrittore, che ha sceltod’infrangere la barriera del Professionista per descrivere nel suo nuovo libro, intitolato “La vita è un sogno”, la personale esperienza – vissuta in gioventù – riconducibile a due sindromi misconosciute, seppur molto diffuse: la derealizzazione e la depersonalizzazione.
Daniela Cavallini:
Grazie Dott. Ghezzani per essere ancora con noi e, soprattutto per aver deciso di confidare la sua sofferta esperienza giovanile. Lapalissiano che questo aiuterà molte persone, che vivono quegli stessi disagi che lei ha superato. Una sorta d’incoraggiante testimonianza. Qual è il significato di derealizzazione e depersonalizzazione?
Dott. Nicola Ghezzani:
Sono ormai quarant’anni che mi occupo di questi due strani sintomi: la derealizzazione e la depersonalizzazione. Li conosco per averne sofferto io stesso da ragazzo e per averli resi oggetto del mio studio nel corso di decenni di attività clinica. Della mia personale esperienza ho parlato, con dovizia di particolari, in due libri: in “Ricordati di rinascere”, del 2014, strettamente autobiografico, ed ora in “La vita è un sogno”(2018), nel quale espongo il mio innovativo metodo terapeutico, la Psicoterapia dialettica. Essendone guarito del tutto in pochi anni di psicoterapia (dal 1977 al 1981 circa), ho fatto di questo disturbo una delle mie ragioni di vita, sia nel senso clinico di curarla nei miei pazienti, sia nel senso culturale di farmene portavoce scientifico, allo scopo di correggere le gravi inesattezze di cui è fatto oggetto.
La derealizzazione e la depersonalizzazione sono alterazioni della coscienza di sempre più ampia diffusione. Ve le racconto con un esempio. Ecco cosa mi scrive un ragazzo in una prima mail di contatto: «Una volta, durante un lungo riposo pomeridiano, ebbi un’esperienza particolarmente lucida. Al risveglio inizialmente tutto sembrava normale, ma poi quando scesi dal letto ebbi la sensazione di trovarmi in un sogno, o comunque dentro un’illusione, consapevole però di essere sveglio e di star vivendo nel mondo fisico reale. Dal piano di sopra, dove erano le camere da letto, scesi in cucina e vidi mia madre seduta in poltrona: a quel punto ebbi la sensazione che lei non fosse vera, che fosse piuttosto una specie di robot, un automa. Non mi vergogno a dirlo ma, imbarazzato dell’accaduto, mi allontanai dalla cucina e cominciai a darmi dei pizzicotti per verificare se mi trovassi in un sogno, ma non accadde nulla. In realtà ero sveglio e la sensazione scomparve in circa mezz’ora. Durante l’esperienza, non so come, sentivo di avere lasciato una parte della mia coscienza o della mia mente altrove, lontana dal mio corpo».
Come si evince dalla testimonianza, il ragazzo “sa” che la madre non è un robot, ma la sua percezione è tale che ella gli appare come se fosse un robot. Il “come se” è un fattore diagnostico importante, perché distingue in modo netto e senza equivoci questa sindrome da qualsiasi psicosi. Per l’esattezza il disturbo di derealizzazione e depersonalizzazione è un disturbo d’ansia che si avvale del sistema funzionale della dissociazione. Chi vive un’intensa e drammatica esperienza emotiva, può dissociare da sé – ossia dall’Io cosciente – ogni emozione e ogni riconoscimento cognitivo (che avviene sempre attraverso il sottofondo emotivo), quindi può astrarsi sia dal mondo che dall’Io corporeo, allo scopo di evitare il trauma emotivo collegato all’esperienza.
Purtroppo, il riduzionismo della psichiatria tradizionale è, al riguardo, sconcertante e ottiene effetti terroristici. Molti psichiatri interpretano i sintomi come tipici di un esordio schizofrenico. Si tratta di un errore grave e molto diffuso che io mi picco di correggere con il mio lavoro e i miei scritti. Derealizzazione e depersonalizzazione fanno parte della vasta famiglia dei disturbi d’ansia, di cui rappresentano uno dei picchi di maggiore acuzie.
L’aver vissuto questi sintomi complessivamente per quattro anni mi autorizza a parlarne su due versanti, quello dell’esperienza personale e quello della ricerca scientifica, coadiuvata da quasi quarant’anni di attività clinica. Col mio impegno personale intendo dimostrare due tesi, che assumo come altrettante scommesse col mondo culturale contemporaneo.
La prima è che nessuno è esente da una qualche forma di disturbo psichico. La psiche è un sistema dinamico, un sistema dinamico come il corpo, di cui in fondo fa parte: nessun medico sarebbe così folle da pensarsi al sicuro da qualunque patologia organica. La laurea in medicina non esenta dalla malattia e dalla morte. Io penso che, seguendo l’esempio del medico, nessuno psichiatra o psicoterapeuta dovrebbe fingere con se stesso e con gli altri di essere intrinsecamente al riparo dalla possibile formazione di un sintomo psichico. Il sintomo è un segnale e una psiche senza segnali sarebbe una psiche morta. Come il corpo non cessa mai di emettere segnali di piacere e di dolore, tanto che molte malattie funzionali possono essere intese come segnali di una correzione in atto, la psiche fa la stessa cosa.
Quindi – ed è la mia seconda scommessa con la cultura contemporanea – intendo dimostrare che assunto come segnale, ogni sintomo assolve alla funzione di indicare una crisi del sistema psichico e di spingere ad una sua evoluzione. Di solito si pensa che sintomo psicologico e disturbo mentale siano la stessa cosa e che, sconfiggendo il primo, si sconfigga anche il secondo. Si tratta di un grave errore favorito da un’industria farmaceutica che vuole imporre la sua cinica visione del mondo: «Consumate farmaci e sarete felici!». Ebbene anche su questo punto la vera medicina può venirci incontro: eliminare il bruciore epigastrico non elimina la gastrite né tanto meno elimina le cause della gastrite: ansie e comportamenti alimentari scorretti. Anzi, un uso acritico di protettori gastrici e antiinfiammatori può abbassare la soglia di percezione del sintomo, quindi aggravarne la cause. Allo stesso modo, il sintomo psichico non va considerato come la causa del male, ma solo come il suo effetto. Prima di abolirlo, va capito, per poter risalire alle sue cause. Inoltre, in quanto effetto di una causa nascosta, il sintomo va inteso come una forma di comunicazione fra inconscio e conscio, che nel soggetto in analisi è deficitaria e che il terapeuta dovrà interpretare e mediare.
Daniela Cavallini:
Due sindromi ad oggi molto diffuse. Ci può descrivere brevemente i sintomi?
Dott. Nicola Ghezzani:
C’è un momento che precede l’episodio di derealizzazione durante il quale il soggetto cessa di avvertire il processo vitale in corso; ogni cosa fuori e dentro di lui sembra come “rallentare” o “fermarsi” del tutto; ed egli non avverte più la qualità che un attimo prima caratterizzava la vita.
Poi fanno irruzione i sintomi.
I sintomi si sviluppano su due diversi livelli.
Al primo livello, consistono in sensazioni di irrealtà, intense e spesso drammatiche, l’una relativa alla percezione del mondo, l’altra relativa alla percezione del proprio Io mentale e corporeo. Le due esperienze nascono da una matrice comune. Il soggetto vede e percepisce se stesso e il mondo come in un sogno, come una mera rappresentazione: tutto gli appare remoto, meccanico, morto, insensato, folle. Lo vede come da dietro una spessa coltre di sonno, o da dietro una lastra di vetro, o come se fosse immerso in un piscina o nelle profondità del mare; e come se lui stesso fosse un palombaro, un automa, un morto, una mente aliena dissociata da ogni altro essere umano. Il suo punto di vista gli appare diverso da ogni esperienza cognitiva pregressa: tutto gli si mostra strano, estraneo, impersonale, extra-umano o disumano, sconnesso sul piano temporale, composto da piani o da mondi dissociati l’uno dall’altro; niente è più sostenuto dal “sentimento dell’esserci”, dal sentimento empatico e partecipativo che caratterizza il rapporto che l’Io ha di solito con se stesso e col mondo. La percezione è alterata e non appare più possibile ricondurla al senso comune.
Qualcosa di simile a un sogno – o a un incubo – si impone alla coscienza. Come il sogno “spiazza” e aliena il punto di vista dell’Io e il significato abituale che l’Io dà a se stesso e al mondo, allo stesso modo le esperienze di derealtà separano l’Io dal sottofondo di emozioni che rendono il proprio corpo e il mondo qualcosa di sentito, di familiare, di sensato. Se sono derealizzato o depersonalizzato vedo il mondo o me stesso come se fossi separato dal mio corpo e dal mondo, non di rado con un acuto sentimento di nausea o di orrore. Vedo il mondo e il corpo personale come se ne fossi al di fuori, come in un’allucinazione. Questi sono i sintomi di base, di primo livello.
Purtroppo, il più delle volte – a causa della cattiva informazione psicologica e psichiatrica – a questi primi sintomi si associa una ideazione ansiogena di secondo livello. La percezione derealizzata appare così strana, così fuori dal senso comune, così priva di ogni familiarità che quasi all’istante si ha una drammatica reazione d’ansia, e questa avvia il processo sintomatico secondario. Questo processo secondario è di natura ipocondriaca: il soggetto teme di star vivendo l’episodio fatale che sottraendogli il controllo della mente lo porterà alla follia. Precipita allora nel terrore di impazzire, le percezioni si cristallizzano e spesso ha una lunga, interminabile crisi di angoscia, oppure un attacco di panico. Se questa angoscia non viene ridotta, è facile che il derealizzato precipiti nella fobia di impazzire o di essere già pazzo, cui può far seguito uno stato depressivo costante, che col tempo può diventare grave. L’idea di essere un folle, un malato neurologico grave o addirittura un comatoso immerso in un sogno, è solo un’interpretazione secondaria del soggetto, che nulla ha a che fare col disturbo primario.
Questo processo ansioso secondario non è parte del fenomeno di base, si innesca solo in quanto il soggetto è terrorizzato da una realtà psichica che non conosce e non sa classificare. Ciò si dimostra a contrario: infatti, qualora si riesca a placare l’ansia secondaria (con mezzi naturali o con uno psicofarmaco), il terrore scompare e resta solo la percezione di base, l’alienazione da se stessi o dal mondo, con un velo di assenza che copre e pervade ogni cosa.
Dunque, la prima cosa da fare in psicoterapia è riportare il paziente dalla fase dell’angoscia secondaria, particolarmente tormentosa, a quella iniziale, primaria, nella quale il sintomo è drammatico e severo, ma di per se stesso non sconfinerebbe né nel panico, né nella fobia ipocondriaca, né nella depressione. Se il paziente si rende conto di questo, se riesce a de-oggettivare ciò che arbitrariamente gli appare oggettivo (danno cerebrale o follia presunti), allora è possibile avviare la fase psicoterapeutica, che consiste nel renderlo consapevole dei suoi conflitti inconsci.
E’ ovvio che, qualora il paziente prenda farmaci, lo psichiatra e il medico curante dovrebbero essere sufficientemente illuminati da non atterrirlo con diagnosi infondate di patologia biologica irreversibile.
Daniela Cavallini:
Quali sono state le sue reazioni al manifestarsi di tali malesseri?
Dott. Nicola Ghezzani:
Contrariamente a quanto si possa pensare, in principio io non solo non ebbi paura, ma ne fui incuriosito e quasi incantato.
La mia storia con la derealizzazione cominciò a diciassette anni, quando scoprii con un misto di stupore e di candore l’esperienza dell’estasi. Mentre il mio Io perdeva consistenza e si dissolveva fondendomi col mondo, il mondo risplendeva di luce propria, ogni oggetto era traslucido, i colori erano intensi fino alla fosforescenza. Il blu era più blu e irradiava, il verde era più verde e risplendeva, il nero era liquido e vivo come una goccia di perla. Il tempo rallentava in un flusso controllato, fino a raggiungere una misura calma, di quiete perfetta. Il cosmo appariva vasto e senza confini. Il mio animo era pervaso da un sentimento di beatitudine. Mentre ciò accadeva al mio Io, allo stesso tempo io potevo assistere all’intero processo come fosse alcunché di oggettivo e impersonale.
Non ne parlai con nessuno. Col tempo divenne il mio segreto. Intuivo di non poter essere compreso, quindi tacqui. Ma i miei mezzi di comprensione psicologica erano scarsi, sicché, pur intuendo che la mente mi stesse segnalando qualcosa, non capii la natura profonda di quella interlocuzione e il sintomo peggiorò.
Un giorno, uscivo di casa e vidi il cielo come un grande dipinto. Poi pian piano non solo il cielo, ma anche la città, d’un tratto, cominciò ad apparirmi falsa, come in un immenso affresco o una smisurata scena teatrale. Del cielo non riuscivo più a vedere la profondità né a percepire il movimento. Non avevo più di fronte a me il mondo naturale, infinito e libero, ma una sorta di cartellone dipinto da un immenso artista per suggerirci l’idea di una realtà.
La singolare percezione mi accompagnò in modo alterno per anni. Ogni tanto il cielo, che un attimo prima era lo spazio sconfinato della natura, cambiava aspetto e tornava ad essere l’ironico scenario di cartapesta della mia immaginazione. Il mondo intero mi si rivelava ora irreale, falso, arbitrario: un artificio ingannevole di cui mi scoprivo prigioniero e dal quale non trovavo più la via d’uscita. Era come se il mio inconscio m’inviasse un messaggio ironico: «Perché mai angosciarsi, arrabbiarsi, tentare un’azione? Non vedi che tutto è falso?».
Poi la cosa precipitò ancora. Da un giorno all’altro e per molti mesi ebbi una percezione carica di dramma. Vidi il gruppo della mia famiglia come un’unica entità coesa, composta della stessa strana materia: una materia pallida e brunastra, vagamente ambrata, che avvertii come “materia morta”. Furono i loro occhi soprattutto a colpirmi, in particolare gli occhi della mia nipotina, che all’epoca aveva quattro anni. I suoi occhi mi apparvero d’un tratto come opachi e bui: gli occhi di una piccola morticina. Inutile dire che l’esperienza fu accompagnata da un’intensa angoscia. Ne fui scosso, ma non stupito: quella strana percezione non faceva altro che dar corpo in modo vivido e violento all’idea che m’ero fatto della mia famiglia e ormai anche di me stesso: c’era qualcosa di morto in tutti noi e solo io ero in grado di vederlo.
Come accade sempre coi sintomi avevo avuto un’intuizione. Ma era un’intuizione soffocante, perché priva di concetti e di parole. Dal momento in cui sviluppai questa percezione e poi per i mesi che seguirono, seppi per cognizione diretta che tutto ciò che mi stava di fronte era già morto. Lo sapevo con una certezza inconfutabile. Le persone mi vivevano accanto, serie e silenziose oppure allegre e rumorose; eppure io le percepivo da una profondità abissale, come da un altro tempo. Da quella profondità e da quel tempo – da quella radicale distopia – io potevo vedere che fra me e loro era tutto finito. Ma ancora non sapevo come dirmelo, come constatare in piena coscienza ciò che gli occhi del cuore avevano già visto. Nonostante l’angoscia, mi rendevo conto che qualcosa stava per accadere: che di lì a poco sarebbe morto il vecchio Io e da quella morte sarebbe nata una nuova percezione della vita.
Questo fu il mio primo vero e massiccio sintomo di derealizzazione, che ebbe su di me un impatto sconvolgente. Solo quando compresi che la struttura del mio Io era rigida e dava poco spazio ai miei bisogni più profondi e che quindi quella struttura stava morendo con tutto il suo mondo, solo allora cominciai a capire che i sintomi psichici sono le metafore di una vasto flusso dialogico che ci attraversa di continuo. E allora fui “preso”, fui conquistato dalla mia vocazione: capii che l’ascolto dell’Altro che parla in noi – l’inconscio – sarebbe diventato il mio destino. La potenza del sintomo mi richiamò a me stesso, come il cane da pastore fa con il gregge, e mi pose nel ruolo di ermeneuta, di generatore e decifratore di simboli.
Daniela Cavallini:
Dal canto di colui che ha subito personalmente le sofferenze descritte, cosa si sente di consigliare a coloro che oggi percorrono la sua stessa esperienza?
Dott. Nicola Ghezzani:
Partiamo dal presupposto che fra chi sta leggendo questa intervista in questo preciso momento ve ne siano alcuni – forse molti – che soffrono di derealizzazione o di un disturbo simile: attacchi di panico, ipocondria, angoscia fobica ecc. Ebbene, costoro hanno già fatto il primo passo, ed è il passo giusto: se ci stanno leggendo, vuol dire che hanno avuto la buona idea di informarsi. Ecco, il primo passo è informarsi. Parlare con gli amici, coi parenti, infine con specialisti affidabili. E leggere, leggere tanto, per approfondire la conoscenza. Io lavoro da moltissimi anni anche sui disturbi dell’affettività e sulla dipendenza affettiva in particolare. Ebbene, le donne e gli uomini che hanno più probabilità di guarire sono quelli aperti alla conoscenza: quelli che vogliono capire la propria storia, la personalità propria e altrui e che accompagnano questo desiderio di conoscenza con la lettura. Quindi la prima cosa che consiglio a un derealizzato è di informarsi e di leggere.
Poi, la seconda cosa, è di arginare l’ipocondria, cioè il sintomo secondario, l’angoscia di impazzire o di avere una malattia neurologica o di essere in coma su un letto di ospedale e di star sognando la propria vita. Chi soffre di derealizzazione deve restare sul punto, sul sintomo primario: la derealizzazione e la depersonalizzazione sono in realtà sintomi apatici, freddi: l’angoscia e il terrore li aggiungiamo noi in un secondo momento, proprio attraverso la dinamica ipocondriaca. Quindi, evitiamo di farlo. La cosa che sta accadendo è meno grave di quanto può sembrare. Più ne avremo paura, più la peggioreremo. In questo senso, sarà importante non interloquire con persone, anche specialisti, che drammatizzino la situazione. Cerchiamo di restare in quel distacco che il sintomo ci impone e prendiamo atto che la mente sta giocando con noi come l’ipnotista con l’ipnotizzato.
Poi, ed è la terza cosa da fare, è importante capire che il sintomo non è la malattia, il sintomo è un segnale. Il sintomo non è l’espressione di un fenomeno biologico irreversibile e incomprensibile, è l’interlocuzione di una soggettività che ci parla in un’altra lingua: dobbiamo imparare a capirla. angoscioso. Questa esperienza di estraneità semantica è la stessa che vivono i genitori inesperti con il loro primo neonato: il bambino piange e non si sa perché: è un mistero angoscioso. Ma ciò è quanto accade anche a noi con noi stessi: abbiamo un dolore al colon e non sappiamo se è un problema alimentare, un’ansia improvvisa o magari un’ulcera. Il neonato e il corpo, dunque, parlano una lingua misteriosa, una lingua che dobbiamo imparare a capire. Con la psiche abbiamo a che fare con qualcosa di dinamico e contraddittorio: è esploso un conflitto inconscio e dobbiamo capire di che natura sia.
In questo senso, infine, sarà inevitabile fare una psicoterapia. E’ il mio quarto consiglio. La farmacoterapia è spesso ridondante, persino inutile, proprio perché abbiamo a che fare con un sintomo apatico, freddo, sul quale il farmaco non fa presa. Quindi, senza vergogna, ma con fiducia, occorrerà pensare alla psicoterapia come a un dialogo con se stessi, a una conoscenza che vorrà tempo e pazienza. Perché la cosa fondamentale in tutto questo è capire che essere “interrogati” da una malattia non è solo un tormento, è anche un privilegio. Mi rendo conto che nel dirlo enuncio un concetto paradossale. Ma è proprio così: un disturbo psicologico può essere un privilegio, nonostante il rischio fatale che comporta: perché la malattia ci chiama a una conoscenza di noi stessi radicale e senza ombre, ci spinge ad un sorprendente ampliamento della coscienza, quindi ad una evoluzione della personalità e a un cambiamento del mondo intorno a noi.
Nicola Ghezzani
Sito: nicolaghezzani.altervista.org
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