Mangiare, e le sue contraddizioni
di Lucia Giombini
Tra natura e cultura
Mangiare è necessario, pericoloso e sublime. Queste qualità, ad un primo sguardo, sembrano in contraddizione tra loro. In realtà, comprendono molti significati che sono inerenti a un atto così indispensabile alla sopravvivenza. Infatti, i modi in cui ci nutriamo sono in grado di dirci alcune cose importanti. Non solo su come viviamo, ma anche sulla struttura della società, e sulle regole che permettono la sua persistenza nel tempo. Inoltre, il modo in cui interagiamo con il cibo ci mostra i nostri requisiti personali e relazionali. In questo senso, il mangiare partecipa sia alla natura sia alla cultura.
Il cibo non viene semplicemente ingerito. Prima di entrare nella bocca è pensato, selezionato e progettato. La possibilità che il cibo, pronto ad essere ingoiato, sia potenzialmente pericoloso per il nostro organismo è sempre presente. Ed è all’atto della sua preparazione che si affida sia il compito di difenderci da questo rischio, attraverso tecniche culinarie sempre più raffinate, sia il modo di esorcizzarlo simbolicamente. È la preparazione del cibo che segna il passaggio dalla natura alla cultura. E le adozioni di specifici strumenti per cuocere e per mangiare, delle cerimonie e dei riti durante i quali uomini e donne si raccolgono attorno alla propria mensa, rappresentano le prerogative di ogni società.
Un altro aspetto, intrinsecamente collegato all’eventuale nocività del mangiare, è l’atto di fiducia che compiamo verso coloro che si prestano a nutrirci, a partire dai nostri primi vagiti. È una fiducia essenziale per la nostra sopravvivenza, ma non assoluta, e sarà, infatti, di volta in volta rinnovata, oppure messa in discussione, determinando la qualità della relazione con i nostri caregivers.
Modi di dire, modi di fare
Per rendersi maggiormente conto dei molteplici e diversi sentimenti che stanno dietro alle espressioni attinenti al mangiare, possiamo pensare agli svariati modi di dire, di uso comune nella nostra lingua. Come, ad esempio, mangiare di baci, mangiare con gli occhi, ti mangerei tutta, per esprimere un desiderio verso l’altro. O di contro, me lo mangio vivo, mi fa vomitare, mi mangio le mani, questa non la butto giù, sta vomitando ingiurie, quello sputa nel piatto dove mangia, questa mi è propria rimasta di traverso,è stato un boccone avvelenato, ha mangiato veleno, per rivelare sentimenti di rabbia e di rifiuto. E ancora, ha sete di sapere, ha fame di cultura, ha divorato quel libro, per descrivere la brama di conoscenza. Ed infine, anche se potremmo citare molti altri esempi, quel ragazzo è buono come il pane, un bocconcino di ragazza, per raffigurare le caratteristiche positive di una persona.
Le metafore sul mangiare, che si caricano di connotazioni tanto piacevoli quanto aspre, rappresentano un modo di esprimersi strettamente legato al fatto che il mangiare si può configurare come una forma di sublime godimento o di tragica pena dovuta alla scarsità, se non assenza di cibo, per moltissimi esseri umani nel mondo. Si registra, però, che nella nostra società il mangiare ha assunto le forme di un’ostile e accanita ossessione che conduce alcuni a smettere di mangiare, a controllare senza sosta quello che mangiano o a mangiare così tanto da farsi male, diventando questo atto vitale un ostacolo ad una vita sana e serena. Un libro succinto quanto denso di significati dal titolo Mangiare dello storico e filosofo della scienza Paolo Rossi Monti (1923-2012) mostra volti di bambini affamati a fianco dei serial killer che si nutrono dei corpi delle loro vittime.
L’autore ricorda i digiuni delle sante e le storie di cannibali. Descrive i corpi gonfi di grasso degli obesi e i corpi emaciati dei ragazzi e delle ragazze anoressiche. Racconta che il culto di Ana, mostruosa divinità sostenitrice dell’anoressia come esito di una scelta eroica, simbolo di una superiore forma di vita, procede di pari passo con la filosofia gaudente dello slow food, le cui regole dettano il galateo alimentare. Tutte queste rappresentazioni, che non dovrebbero essere accumunate, sono invece intrecciate indissolubilmente tra loro. La nostra mente dovrebbe saperne cogliere le contraddizioni e interpretarne i simboli, perché quando non lo fa, si ammala.
Forme diverse, la stessa ossessione
Se il mangiare è un rapporto d’intimità, per dirla con le famose parole di Nozick, è proprio questo sentimento che viene a mancare quando l’uso che facciamo del cibo è falsato per diventare disturbo del comportamento alimentare. Interrompendosi la naturale familiarità, il cibo perderà anche tutte le proprie sfaccettature relazionali, sociali e culturali, per diventare ossessione. In conformità al significato etimologico di questo termine – derivato dal latino obsesso «assedio» – la persona si sentirà come assediata dall’idea del cibo sia nei pensieri sia nel comportamento. Allora, si svilupperanno varie pratiche di verifiche estreme, premonitrici dell’inevitabile perdita totale di controllo. Qualunque sia la forma assunta dal disturbo alimentare, per capire se c’è un problema con il cibo ci si potrebbe limitare ad una sola domanda: “Quanto pensi al cibo durante la giornata? “Tutto il giorno, non riesco a pensare ad altro”, risponderà sia chi mangia troppo poco sia chi mangia oltremisura, o chi sceglie il cibo secondo i criteri del salutismo assoluto. Dal punto di vista fenomenologico i disturbi del comportamento alimentare si esprimono su un asse che procede dalla fame alla sazietà estrema, dall’inanizione all’obesità, dall’iperattività all’immobilismo. È nell’ossessione che tutti i disturbi del comportamento alimentare diventano uno solo. Il cibo assume la forma di un pensiero ricorrente che tormenta e non lascia spazio ad altro.
Uno dei miei primi contatti con una forma lieve di disturbo alimentare lo sperimentai durante i miei primi anni universitari, quando condivisi la stanza con una mia compagna di corso, perennemente a dieta. Tutte le sere prima di dormire mi diceva: “Ti prego, parliamo di cibo e di tutti i pasti più buoni che potremmo mangiare ora”.Si perdeva in improbabili fantasie, immaginandosi piatti prelibati e raffinati, o dolcissimi snack da gustare con morbosa avidità. Assomigliava tanto alla scena di una persona che soffriva le più acute pene d’amore, non potendosi congiungere con il suo amato. O perché si sentiva rifiutata, o perché era lei che non riusciva a trovare il coraggio di dichiararsi. Anche nelle relazioni d’amore, quando i sentimenti diventano ossessivi, si giura e si spergiura che si farebbe di tutto per il nostro prediletto. In realtà, succede che evitiamo il nostro amato, isolandoci in una solitudine forzata, o lo controlliamo in preda ad una gelosia travolgente.
Qualcosa di simile accade anche con il cibo. A volte, lo si evita affermando con tenacia che non ne abbiamo bisogno, e ci si arrocca in una pretesa di autosufficienza irrealistica. Oppure ci si convince che non ce lo meritiamo, relegandoci al ruolo di vittima delusa e frustrata, il cui destino sembra incontrovertibile. In entrambi i casi, si dice che non si vuole o non si può mangiare, e ci si rifiuta di sedere alla tavola con i nostri familiari o di partecipare alle occasioni conviviali. Altre volte, si mangia di tutto un po’ e di continuo, come se non bastasse mai e non si volesse stare da soli nemmeno per un attimo. Si vorrebbe stare sempre in compagnia di un sapore, di un odore, di un gusto che ci faccia sentire almeno un po’ vivi.
Mentre la vita vera, quella fatta di incontri ed emozioni che generano paura, accade là fuori, lontano da noi. Ed ancora, c’è chi sembra avere tutto sotto controllo, perché conosce i principi nutrizionali alla base di ogni alimento. Sono i seguaci della dieta salutista, praticata in maniera impeccabile, sentendosi parte della “felice società organica”. Ogni tanto il piano regge e si vive in modo rigido e compassato. Spesso e volentieri, però, ci si ritrova la sera di nascosto a divorare tutto il cibo proibito di giorno. “La sera è il mio momento, io con tutti i dolci del mondo, ed in quell’istante posso essere davvero felice”, mi disse una giovane donna, accerchiata fin da piccola dalle regole salutari imposte dalla famiglia. In tutti questi scenari, l’ossessione e il controllo prendono il posto dell’incontro e della relazione, anzi li negano.
Liberi di sedere alla stessa tavola
Il cibo è il carburante vitale della specie umana. Gli alimenti sono trattati socialmente e rappresentano il primo imprescindibile rapporto di fiducia che ogni essere umano intrattiene con la sua famiglia e con la società di appartenenza. Per questo, i disturbi alimentari sembrano indicare l’atto di rottura di questo rapporto di fiducia che ogni essere umano intrattiene con i suoi cari e i suoi simili. Il rapporto di fiducia, prodotto dal bisogno di integrazione sociale, è osteggiato dalla necessità di opposizione che trova la sua espressione nel sintomo, anziché nella formazione di un’identità autonoma. Il disturbo alimentare esprime la difficoltà del soggetto a regolare il rapporto fra appartenenza e differenziazione, fra dipendenza e autonomia. Pochi giorni fa, sollecitata da una paziente, ho guardato un recente film americano sull’anoressia nervosa. Il film è stato molto criticato per aver trattato la malattia in modo superficiale e stereotipato, ma una scena mi ha colpito. Sono state le parole della madre dette alla figlia, che raggiunto un peso quasi non più compatibile con la vita, stava spegnendosi difronte a lei.
Riporto le sue parole prendendomi la licenza di reinterpretarle. Le disse qualcosa di simile: “Ho commesso tanti errori come madre. Alcuni ancora, purtroppo, non li ho capiti; ad altri sto cercando di porre rimedio per quanto mi è possibile. Ti amo cosi tanto e sono cosi disperata, perché non so più come starti vicino ed aiutarti. Sono arrivata alla conclusione che devo accettare l’idea che tu voglia morire”. E ancora: “Ti amo cosi tanto da accettare la tua libertà di fare quello che vuoi della tua vita, anche di morire”. Dal punto di vista medico, una frase del genere attiverebbe tutti i comitati etici e i dibattiti sulla scelta di adottare un “trattamento sanitario obbligatorio”. Se solo per un attimo, però, ci soffermassimo a riflettere sulla drammaticità del messaggio, capiremmo che questa mamma aveva ormai compreso e accettato profondamente che la figlia era libera, libera anche di morire. E le riconosceva il diritto di stare in vita solo se si sentiva libera, rimanendole a fianco senza condizioni.
Questa testimonianza ci mostra quanto la relazione genitoriale sia paradossale, persino tragica. Essa da una parte esige l’amore filiale più intenso, e dall’altra questo stesso amore deve aiutare il figlio a distaccarsi dalla madre, a crescere e a diventare completamente autonomo e indipendente. È facile, per una madre, amare il figlio prima che questo processo di separazione abbia inizio. Difficile, invece, è amare il bambino e nello stesso tempo desiderare di lasciarlo andare, libero di gestire la propria vita. Credo che tale considerazione valga per tutte le relazioni finalizzate ad evolvere secondo i principi di reciprocità e rispetto, piuttosto che di controllo e sottomissione. Accettare che l’altro voglia morire, afferma in realtà l’opposto, cioè riconoscere il pieno diritto a vivere come essere autonomo con la propria unica individualità. “Non devi essere come io ti voglio. Al contrario, ti starò vicino perché tu posso diventare chi vuoi tu”. Di contro, la persona deve saper dire: “Smetterò di cercare a tutti costi di essere come tu mi vuoi”.Perché solo quando si riconosce la libertà dell’altro, si può sospendere il tentativo di controllarlo, evitarlo o farlo proprio, ed iniziare così a rispettarlo nei suoi bisogni e desideri. E solo allora sarà gioioso e davvero nutriente sedere insieme alla stessa tavola.
https://thepsychologist.bps.org.uk/contradictory-dynamics-eating
Riferimenti bibliografici
Fromm, E., & De Roberto, C. (1960). Psicanalisi della società contemporanea. A. Mondadori.
Ghezzani, N. (2017). Disturbi alimentari. Un’analisi psicologica http://nicolaghezzani.altervista.org/psicologia_disturbi_psicologici_psicoterapia-disturbi_alimentari.html. Consultato Aprile 2019.
Nozick, R., & Boringhieri, G. (1990). La vita pensata: meditazioni filosofiche. A. Mondadori.
Rossi, P. (2011). Mangiare. Il Mulino.